Di Michela Bianchi
Quante domande abbiamo cominciato a porci circa vent’anni fa, decidendo di dedicare un’intera collana al tema del viaggio!
E’ possibile viaggiare per il mondo senza venir schiacciati dalle nostra stesse impronte?: ci domandavamo all’inizio del primo libro, L’arte del Viaggio. Ragioni e poesia di un turismo sostenibile (1998), mettendo in evidenza il contrasto, drammatico, che rassegna il turista occidentale a essere vittima o colpevole di inquinamento e sfruttamento.
Già allora la contrapposizione fra turismo fautore di progresso e turismo fattore di degrado socio-ambientale appariva insuperabile e sempre più urgente la necessità di indagare i meccanismi e individuare le possibilità di cambiamento.
Il viaggio non è forse divenuto un gigantesco supermercato dei nostri svaghi errabondi, delle nostre ansie di consumo? Era la domanda posta dall’antropologo Franck Michel nel suo denso e appassionato libro Altrove, il settimo senso (MC Editrice, 2001).
L’autolesionismo del turista che logora se stesso e l’ambiente e si espone alla banalità di viaggi “per finta” era già ben evidente, così come quello dell’industria turistica chiamata a fare i conti con il progressivo esaurimento delle risorse su cui vive.
Il degrado delle zone di destinazione turistica è continuo e diffuso: i danni agli eco-sistemi sono spesso più pesanti di quelli prodotti dalle lavorazioni industriali, e, soprattutto, sono meno controllabili. L’enorme incremento dei voli aerei e delle offerte di tariffe sottocosto, soprattutto per tragitti brevi, ha rappresentato un ulteriore fattore di inquinamento e di rischio di cui si è sottovalutata la gravità. Per distanze sotto i duemila chilometri, l’aereo registra i maggiori consumi e le più alte emissioni di anidride carbonica e ossido di azoto per passeggero e per chilometro: si tratta di due dei principali gas serra distruttivi della fascia d’ozono. Il traffico aereo è responsabile del 3% delle emissioni totali di anidride carbonica prodotte dall’uomo. Sono dati conosciuti da tempo e che abbiamo riportato con un certo risalto sul libro pubblicato nel 1998.
I disastri avvenuti negli ultimi anni, a partire dal maremoto in Asia del dicembre 2004, in continua spaventosa intensificazione a causa del riscaldamento globale, hanno colpito da vicino luoghi di vacanza e persone in vacanza, con almeno due effetti rilevanti: la parziale condivisione di un medesimo destino fra turisti e diseredati della terra e l’attenzione dei media di tutto il mondo sulle tragedie e le loro conseguenze.
Sono quindi emersi a livello di opinione pubblica dubbi e domande sulle modalità e sui rischi del mercato turistico, mezzi di trasporto inclusi. Ma l’idea che paesaggio, natura e culture siano beni “liberi”, commerciabili e consumabili a proprio piacimento è ancora difficile da superare.
Ecoturismo o egoturismo? Domanda provocatoria che ci siamo posti negli anni successivi quando, di fronte al progressivo degrado ambientale, si faceva strada il cosiddetto turismo verde o ecoturismo con una buona forza di attrazione verso il pubblico sensibile ai temi dell’ecologia e presto recuperato dai tour operator globali, con offerte di “viaggi nella natura” sempre più specializzati.
Turismo e natura: ecco che spesso l’ecoturismo diventava e diventa semplicemente un’avventura e la natura una risorsa da preservare in funzione di questa avventura, da praticare ovviamente in luoghi “selvaggi”.
E allora viene da domandarsi: turismo sostenibile, per cosa e per chi? Come notava Franck Michel, quando i turisti si interessano per un momento agli esseri umani “rimasti” vicini alla natura, lo fanno per rimandarli alle origini della storia, “per rispedirli in certi casi alla preistoria”, in una ricerca del primitivo e dell’autentico a loro uso e consumo.
La moda del viaggio dilaga contemporaneamente alla crisi economica e sociale, alla disoccupazione, alla povertà e alle emergenze ambientali che costringono migliaia di persone all’erranza. In una società fondata sul mercato, il nomadismo che si apprezza e si esalta è quello del consumatore: è questa l’unica idea del viaggio predominante, quella “del consumatore di viaggi”.
Il viaggio si rivela una delle più formidabili falsificazione delle esperienze.
Si scopre il disagio di essere trasportati da un posto all’altro senza un effettivo contatto con la realtà, in un tempo libero che ha ben poco a vedere con la libertà e il piacere della scoperta.
Nel 1989, Tzvetan Todorov così descriveva il turista: “è un visitatore che ha premura, che preferisce i monumenti agli esseri umani […]. La rapidità del viaggio è già uno dei motivi della sua preferenza per l’inanimato rispetto all’animato […]. La mancanza d’incontri con soggetti diversi è molto più tranquillizzante, perché non rimette mai in discussione la nostra identità; è meno pericoloso vedere cammelli piuttosto che uomini […]”
Cosa ha a che vedere tutto questo col nostro bisogno di scoprire, di incontrare, di esplorare? Esiste ancora uno spazio per il nostro bisogno di viaggiare?
Empatia, partecipazione, accoglienza, cordialità, intuizione, sono quei valori emotivi che l'andar per il mondo può suscitare. Valori che hanno in sè la forza per sganciare il viaggio e la vacanza da quella logica mercantile e auto distruttiva che li sta soffocando. E che ancora possiamo sentire, prendendo e concedendo tempo, riducendo la velocità, la fretta e l'ansia di consumo.
“Con la decisione di non volare”, scriveva Tiziano Terzani, “mi ero ridato tempo: il tempo di fermarmi, di guardarmi attorno, di riflettere. Nessuno mi aspettava e con gran piacere rinunciai all’autobus che partiva solo per restare a chiacchierare con un vecchio cinese…”.
Il viaggio è quello straordinario esercizio che più ci riporta al ciclo della vita, con il suo andare e ritornare: come è stato detto, rappresenta probabilmente la strada più lunga che porta da sé a sé.
Non è necessario mettere in mezzo chilometri per sperimentarlo, occorre adottare, accogliere la mente del viaggiatore.