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EUROBOND: perché sono l’unica soluzione praticabile
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Scritto da MC Editrice | |||
Martedì 05 Maggio 2020 17:03 | |||
EUROBOND: perché sono l’unica soluzione praticabile Dati, numeri e problemi in gioco di Marco Manunta*
La pandemia e le sue conseguenze economiche L’impatto della pandemia sulle economie dei paesi colpiti, in pratica del mondo intero, sarà superiore a quello della crisi finanziaria del 2008. Anche i paesi che fino al febbraio scorso vantavano indici economici positivi sono già in recessione: basti pensare agli Stati Uniti, la maggiore economia mondiale. Nessun dubbio che il sostegno alle economie dovrà essere fornito dagli stati, ma i capitali da mettere in campo sono enormi. Il problema comune è, dunque, il reperimento delle risorse necessarie per assicurare le prestazioni sanitarie, la produzione di beni e servizi e per contenere il disagio sociale e, in particolare, la disoccupazione causata dalla pandemia. L’eccezionalità della situazione conduce unanimemente a ricorrere al finanziamento dell’economia in deficit. Il “deficit”, ovviamente, non è un bancomat, ma solo un’indicazione di bilancio: significa spendere fondi di cui non si dispone. In sostanza, si tratta di ottenere capitali a credito. Ogni stato può raccogliere le risorse necessarie emettendo titoli del debito pubblico: btp in Italia , “bund” in Germania e in Austria, “bonos” in Spagna e, in genere, “bond” nel linguaggio internazionale. I capitali raccolti sul mercato devono essere retribuiti: ai sottoscrittori, chiunque essi siano, vanno riconosciuti e pagati periodicamente gli interessi al tasso promesso all’atto dell’emissione dei titoli. Il tasso di interesse varia in ragione dell’affidabilità del debitore (lo stato emittente) ed è tanto maggiore quanto maggiore si prospetta il rischio di insolvenza. Come è noto, nei paesi dell’Unione Europea i tassi di interesse vengono determinati dal famoso “spread”, cioè dal divario fra i tassi sui titoli decennali del paese più forte (la Germania) e quelli degli analoghi titoli di altri paesi; divario misurato in centesimi di punto percentuale (1% = 100 punti base). Conosciamo giornalmente le oscillazioni dello spread: nel caso di rialzo l’Italia sarà tenuta a garantire tassi di interesse più elevati sui propri titoli e, quindi, oltre a restituire alla scadenza del decennio il capitale nominale portato dai Btp dovrà pagare alle singole scadenze annuali l’interesse promesso. Inutile dire che su cifre importanti anche solo lo 0,5% in più (pari a 50 punti base di spread) comporta un notevole aggravio di spesa per i conti pubblici nazionali. Così, su 50 miliardi di euro, pari all’attuale (maggio 2020) importo che il governo si appresta a stanziare per una parte degli interventi a sostegno delle imprese, in caso di emissione di Btp il costo per interessi dello 0,5% ammonterebbe a 250 milioni all’anno. Alla scadenza decennale, quindi, il debito comporterebbe un maggior costo (sempre riferibile allo 0,5%) pari a 2,5 miliardi. Dal momento che la pandemia ha messo in difficoltà tutto il mondo, in ambito europeo otto paesi, fra cui l’Italia, hanno chiesto l’emissione di titoli garantiti dall’UE nel suo complesso con il dichiarato intento, non solo di ridurre il costo degli interessi, ma anche di mettere al riparo i singoli stati nazionali da tensioni speculative della finanza internazionale. La necessità e l’opportunità degli eurobond L’UE non dispone di grandi risorse finanziarie: anche se l’economia complessiva dei paesi membri è la maggiore del mondo, il bilancio dell’Unione rappresenta non più dell’1,04% del reddito nazionale lordo della totalità dei paesi membri stessi. In base agli articoli 311 e 312 TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea) il Consiglio Europeo (composto dai capi di stato e di governo), deliberando all'unanimità, può adottare decisioni che stabiliscono le disposizioni applicabili al sistema delle risorse proprie dell'UE e al quadro finanziario pluriennale. Per determinare il quadro finanziario pluriennale (nel quale rientrerebbe l’emissione di titoli comunitari), però, è necessaria anche l'approvazione del Parlamento, che delibera a maggioranza dei suoi membri. Quanto alle due Istituzioni comunitarie chiamate a deliberare aiuti straordinari conseguenti alla pandemia è necessario ricordare che il 18 novembre 2019 il Parlamento e il Consiglio Europeo hanno approvato il bilancio 2020; bilancio che prevede un pacchetto di 168,7 miliardi di euro in stanziamenti d'impegno e 153,6 miliardi di euro in stanziamenti di pagamento. Se si escludono gli importi relativi ai pagamenti (evidentemente relativi a impegni assunti in precedenza), il capitale complessivo di cui il Consiglio Europeo e il Parlamento possono disporre per stanziamenti vari si riduce a meno di 169 miliardi di euro per il 2020. Cifra esigua e che, oltretutto, ha già ricevuto una destinazione diversa. Essendo, comunque, questa la disponibilità di bilancio (limitata in pratica all’1% del PIL complessivo, come si è visto sopra) è evidente che per i costi e i danni della pandemia, oltre che per gli investimenti necessari alla ricostruzione e al salvataggio dell’economia dell’intera UE, le risorse dovranno essere reperite in altro modo. In un frangente tanto drammatico, un intervento importante a sostegno dei paesi membri comporterebbe il necessario ricorso al credito: tutti gli stati nazionali sono in difficoltà e certo sarebbe assurdo raccogliere capitali comunitari chiedendo una contribuzione straordinaria agli stessi paesi che necessitano di supporto. L’idea degli eurobond appare, dunque, l’unica soluzione. Infatti, come i singoli stati nazionali si procurano risorse finanziarie emettendo titoli del debito pubblico (come i Btp decennali in Italia), così l’UE dovrebbe e potrebbe emettere obbligazioni a termine garantite dal complesso dei 27 paesi membri o, quanto meno, dei 19 stati dell’eurozona. Nel corso delle trattative l’Italia, tramite il proprio Presidente del Consiglio, ha sempre assicurato che si sarebbe fatta carico della quota di eurobond di cui fosse beneficiaria: cioè, ha dichiarato di assumersi l’onere di pagare gli interessi e di rimborsare alla scadenza il valore nominale degli eurobond ai risparmiatori/investitori che li avranno sottoscritti. Qual’è, dunque, la differenza per ogni paese membro tra l’emissione di titoli di stato nazionali ed eurobond? Tutto sta nel tasso di interesse da corrispondere agli investitori. E’ evidente che paesi in maggiore difficoltà, come l’Italia, potrebbero ottenere capitali emettendo titoli propri a un tasso di interesse elevato, mentre con gli eurobond, che avrebbero la garanzia collettiva dell’Unione, il tasso potrebbe essere estremamente contenuto o addirittura nullo. Inoltre, proprio per la garanzia fornita dall’UE nel suo complesso, i titoli comunitari sarebbero di facile collocamento sul mercato. Nonostante le molte buone ragioni a sostegno dell’emissione di tali titoli, sono emerse opposizioni sia in sede europea, sia in sede nazionale (limitatamente all’Italia). L’opposizione in ambito europeo In Europa i principali paesi che si oppongono agli eurobond sono l’Olanda, la Germania, l’Austria e la Finlandia. Molti ritengono che l’atteggiamento degli stati del nord si fondi sul rifiuto di farsi carico dei debiti di paesi già in precedente condizione di forte indebitamento, come l’Italia. Ma, come si è visto, l’Italia ha sempre dichiarato di impegnarsi singolarmente al rimborso dei titoli “utilizzati”. Come ha scritto Il Post del 9 aprile scorso la ragione dell’opposizione dei paesi del nord non è tanto il timore di dover condividere i debiti dei paesi del sud, quanto la preoccupazione di perdere l’enorme vantaggio che deriva loro dall’esistenza dello spread. Infatti, gli stati considerati economicamente solidi e particolarmente affidabili come la Germania si finanziano emettendo titoli con tasso negativo (-0,3%); cioè, paradossalmente, pur essendo debitori nei confronti di chi sottoscrive i bund, percepiscono un compenso, che gli investitori sono disposti a pagare per conservare il capitale investito nei titoli in questione. Questo anche perché gli stessi investitori possono ottenere ampi margini di rendimento dai titoli di altri paesi, sulla carta “meno affidabili”, in forza del differenziale (spread) fra i bund e i btp italiani o i “bonos” spagnoli. E’ evidente che l’emissione di titoli comuni garantiti dall’intera UE e, quindi, a tassi ridotti, ma pur sempre positivi, a parità di rischio, svierebbe gli investitori dalla sottoscrizione di titoli nazionali “forti” a tasso negativo. I paesi del nord perderebbero il privilegio, peraltro del tutto anomalo, di finanziarsi sul mercato a costo zero e, anzi, ricevendone addirittura un compenso. I paesi oppositori hanno comunque buon gioco: la regola dell’unanimità del Consiglio Europeo in materia attribuisce valore decisivo (negativo) al voto contrario anche di un solo stato. L’unanimità in sede europea per tutte le decisione più rilevanti muove dalla considerazione dell’UE non come effettiva “unione” di stati, ma come la somma di tanti stati nazionali, tutti gelosi della propria sovranità nazionale e arroccati nella difesa dei propri ambiti di competenza. Se, dunque, si intende effettivamente arrivare alla realizzazione di uno stato federale (come gli Stati Uniti) il modello frammentato attualmente esistente deve essere superato, con la progressiva cessione di quote di sovranità da parte dei singoli stati membri e con il conseguente superamento, in molti casi, della regola dell’unanimità, che spesso conduce alla paralisi dell’Unione in molti campi. A parte questa considerazione di ordine generale, tornando all’opposizione agli eurobond ciò che maggiormente sorprende è l’atteggiamento rigoristico e inflessibilmente negativo tenuto dall’Olanda, che ha assunto la leadership degli stati membri contrari. Si tratta di un paese che ha ben poco da insegnare in termini di rigore e di solidarietà: garantendo trattamenti societari e tributari di favore ha attirato ed attira le più importanti società multinazionali, che hanno trasferito o trasferiscono la loro sede nei Paesi Bassi. In questo modo l’Olanda, nota come “paradiso delle holding”, fruisce di una rendita di posizione (anche questa a costo zero) a detrimento di tutti gli altri stati membri in cui tali multinazionali operano. Così, basti pensare che l’ultima ad annunciare il trasferimento in Olanda è stata Mediaset, dopo che Fiat (Fca) ed Exor avevano già provveduto in senso analogo, per non parlare di Ikea, Google, Ebay, Uber, Unilever, solo per citare qualche esempio.[1] L’opposizione interna In ambito italiano ancor meno comprensibile è l’opposizione, non solo di partiti dell’opposizione, ma anche di gruppi della maggioranza. La contrarietà all’utilizzo del MES (meccanismo europeo salva-stati) nei termini in cui tale meccanismo è attualmente regolato, sarebbe condivisibile per i pesanti condizionamenti che comporta (ristrutturazione del debito, pesanti tagli alle spese sanitarie e sociali, importanti privatizzazioni; il tutto sotto il controllo della cosiddetta “troika”). Ma l’adattamento del MES alle particolari circostanze, cioè, proprio con l’esclusione delle condizioni altrimenti applicabili, fa risultare puramente ideologico il rifiuto. Anche se l’importo che verrebbe erogato all’Italia (in proporzione del PIL) sarebbe di “soli” 36 miliardi di euro, da destinare esclusivamente a spese per la sanità, non si vede perché l’Italia non dovrebbe giovarsi di un finanziamento vantaggioso e sostenere le stesse spese sanitarie (di cui c’è estrema e urgente necessità) ricorrendo all’emissione di Btp con tassi di interesse ben più elevati. Ancora più stupefacente è il rifiuto, da parte di partiti dell’opposizione, degli eurobond (ammesso che questi venissero emessi dall’UE); rifiuto accompagnato dall’affermazione “patriottica” del “facciamo da soli”. Anche qui non si capisce perché, a fronte di titoli comuni con tassi di interesse molto inferiori a quelli dei titoli di stato nazionali, l’Italia dovrebbe incrementare il proprio indebitamento emettendo propri btp a tassi nettamente svantaggiosi. Peraltro, anche in questo caso i motivi dell’opposizione sono ampiamente diversi da quelli enunciati: l’obiettivo non sono i titoli del debito pubblico nazionale o europeo, ma la caduta dell’attuale governo: gli eurobond non sono altro che il pretesto occasionale della permanente campagna elettorale condotta nel nostro paese. Ma le dichiarazioni politiche sull’argomento, tradotte anche in un voto contrario espresso in sede di Parlamento europeo, mette a rischio il paese: non solo l’Italia partecipa alle trattative con gli altri stati membri in una condizione indebolita proprio per la mancanza di unità al suo interno, ma rischia di finire in un’ennesima crisi di governo proprio in uno dei momenti più drammatici della sua storia.
Il debito italiano Se è indubbio che l’eccezionalità della situazione impone un impegno finanziario straordinario e il ricorso all’indebitamento, diretto (mediante emissione di titoli di stato nazionali) o indiretto (mediante finanziamento di titoli comunitari ovvero di altro tipo di sovvenzione da parte dell’UE),, è altrettanto indubbio che il debito italiano, già il più elevato d’Europa, risulterà ulteriormente incrementato. Con le misure messe in atto in questi giorni e con quelle preventivate per i prossimi mesi l’indebitamento supererà il 155% del PIL. Ma ciò che più di ogni considerazione sui numeri complessivi rende più facilmente percepibile la realtà in cui viviamo e vivremo è l’ammontare del debito che grava su ciascuno di noi: il debito pubblico in capo ad ogni italiano ammonterà a 43.000 euro, compresi i neonati. Superata l’emergenza nessun governo potrà ignorare il problema del graduale rientro da un’esposizione debitoria tanto elevata. Non si tratta, infatti, di rigore di bilancio fine a se stesso, ma del futuro dei nostri figli e nipoti: quali investimenti saranno possibili per l’istruzione, la ricerca, la previdenza e l’assistenza se non si inverte la tendenza all’incremento del deficit? Non si potrà ottenere la disponibilità di nuove risorse ricorrendo all’emissione di titoli di stato all’infinito, anche solo per pagare gli interessi sui titoli già emessi o da rinnovare. Non si tratta solo di assumere politiche tributarie e di bilancio più oculate, ma anche di ricorrere a strumenti di finanziamento, come sopra abbiamo visto, che possono limitare i costi per interessi e contenere l’ulteriore indebitamento. Evidentemente il problema non è solo dei politici, ma anzitutto nostro, di noi tutti cittadini.
*Magistrato in pensione, autore di ricerche e studi nell’ambito del diritto europeo. Fra i libri pubblicati, vedi, fra l’altro quelli in tema di diritto all’acqua, editi da MC Editrice per la collana Hydor.
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