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Sentieri himalayani

Sette racconti di viaggio ed altrettanti itinerari in una delle regioni più suggestive e sacre del pianeta, con una guida d’eccezione come Jacques Vigne. Medico psichiatra, ricercatore, maestro di meditazione, per la prima volta, e per il pubblico italiano, raccoglie in un libro le sue esperienze di viaggiatore e di guida sui sentieri himalayani.

 

Una gioia di nonsense

Perché abbiamo bisogno del comico e dell’assurdo? Da dove viene l’interesse per una forma poetica così poco convenzionale come il nonsense? Andare oltre il pensiero razionale, accogliere il senso nudo dell’esistenza ha un effetto liberatorio, salvifico, persino gioioso.

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Piccolo Manifesto in tempi di pandemia PDF Stampa E-mail
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Scritto da MC Editrice   
Mercoledì 08 Aprile 2020 21:48

Piccolo Manifesto in tempi di pandemia

 

A nome del Collettivo Malgré Tout (“Malgrado tutto”) proponiamo questo breve Manifesto composto da cinque tracce di riflessione e ipotesi pratiche da condividere con chi fosse interessata/o. Speriamo sia un contributo utile per pensare e agire all’interno dell’oscurità della complessità.

 

1. Il ritorno dei corpi

Negli ultimi quarant’anni almeno, siamo stati testimoni del trionfo e del dominio incontrastato del sistema neo-liberista in ogni angolo del pianeta. Tra le diverse tendenze che attraversano questo tipo di sistema, una in particolare sembra costituire la forma mentis dell’epoca. Si tratta della tendenza a considerare i corpi come il rumore di fondo che disturba la “recita” del potere, poiché i corpi reali, sempre troppo “pesanti” e troppo opachi, desideranti e viventi sfuggono alle logiche lineari di previsione.

Da sempre l’obiettivo perseguito dalle pratiche e dalle politiche proprie del neoliberismo consiste nel deterritorializzare i corpi, virtualizzarli, facendone una materia prima manipolabile, un “capitale umano” da utilizzare a proprio piacimento nei circuiti del mercato. Si richiede che i corpi siano disciplinati, dislocabili senza criterio, flessibili, pronti ad adattarsi ( leitmotiv del nostro tempo) alle necessità determinate dalla struttura macro-economica. Nella loro astrazione estrema, i corpi dei migranti senza documenti, dei disoccupati, i corpi non conformi, i corpi annegati nel Mediterraneo o ammassati nei centri di detenzione, in breve, i corpi considerati in esubero diventano semplici numeri, senza valore, senza alcuna corporeità e quindi, in fine, senza umanità.

In ambito tecnico-scientifico questa tendenza si esprime nella formula del “tutto è possibile”, che non riconosce alcun limite biologico o culturale al desiderio patologico di deregolazione organica.

E’ diventata ormai una questione la possibilità di aumentare i meccanismi del vivente, la possibilità di vivere mille anni, se non addirittura di diventare immortali! Si tratta niente di meno che della volontà di produrre una vita post organica in cui si potranno oltrepassare i limiti dei corpi, per loro natura imperfetti e troppo fragili. L’accelerazione catastrofica dell’Antropocene negli ultimi trent’anni testimonia gli effetti nefasti del “tutto è possibile” tecnicista che non soltanto ignora, ma calpesta le profonde singolarità dei processi organici.

E’ in questo mondo, convinto di potersi sbarazzare dei limiti propri del vivente, che insorge la pandemia. In maniera catastrofica e sotto l’effetto della minaccia ci rendiamo conto d’un tratto che i corpi ritornano. Eccoli diventati da un giorno all’altro i principali soggetti della situazione e delle politiche messe in campo. I corpi si ricordano di noi.

Il ritorno dei corpi sembra aprire metaforicamente una nuova finestra dalla quale possiamo intravedere diverse possibilità d’azione. Innanzitutto dobbiamo constatare che il potere può, quando vuole, dispiegare politiche necessarie alla protezione e alla salvaguardia del vivente. Il Re è nudo!

Stupefatti, i leader della finanza mondiale hanno capito che l’economia, il loro mostro sacro, non poteva fare a meno di schiavi vivi per funzionare.

 

Dopo aver tentato di persuaderci che la sola “realtà” seria di questo mondo era determinata dalle esigenze economiche, i governanti di (quasi) tutto il mondo dimostrano che è possibile agire altrimenti, anche a rischio di mettere in crisi l’economia mondiale. Si tratta di una sorta di autodenuncia da parte di chi aveva sostenuto categoricamente la necessità che tutte le politiche (sociali, ambientali, sanitarie) dovevano obbligatoriamente fare i conti con il “realismo economico”, eretto a dio autoritario al quale non si può mai disobbedire.

Tuttavia una finzione non dovrebbe sostituirsi a un’altra. A quella del neoliberismo, che manteneva l’illusione di una società composta da individui serializzati e autonomi, si sostituisce in queste ultime settimane un altro racconto immaginario che sostiene che “siamo tutti sulla stessa barca”.

Lungi da noi l’idea di criticare questo invito alla solidarietà. Sarebbe tuttavia un errore credere che il carattere collettivo della minaccia cancelli come per magia le disparità tra i corpi. La classe sociale, il genere, il predominio economico, la violenza militare o l’oppressione patriarcale sono altrettante realtà che situano i nostri corpi in modo diverso. Non lasciamoci incantare dalla romanticizzazione del confinamento che mira, strombazzando, a farci dimenticare queste differenze.

 

2. L’emergenza di un’immagine condivisa

Viviamo tutte e tutti nell’ombra di una minaccia grave e generalizzata: quella di una deregolamentazione ecologica globale i cui effetti sempre più massicci (riscaldamento climatico, massacro della biodiversità, inquinamento dell’aria e degli oceani, esaurimento delle risorse naturali) già colpiscono l’insieme del vivente e delle società umane. È certo che oggi una maggioranza di persone ne sia toccata e percepisca (in senso neurofisiologico) questa realtà.

Tuttavia per la maggior parte di noi tutto si svolge come se la catastrofe annunciata, non domani ma già da oggi, non sia identificata come concreta e immediata. La percezione è ben reale ma sembra rimanere a un livello soffuso senza che sia vissuta direttamente. Potremmo dire che siamo immersi nella minaccia. Essa costituisce la nostra atmosfera. Eppure non riusciamo a produrne una conoscenza delle cause, l’unica in grado di formare un’immagine concreta del pericolo che innesca l’agire.

Riceviamo quotidianamente numerose notizie riguardanti “il” disastro ma l’informazione, lungi dal provocare un’azione, conduce all’impotenza e alla sofferenza. Chi riesce ad agire, quindi, in questo contesto? Si tratta secondo noi di coloro che si impegnano nella ricerca delle cause: le vittime, gli scienziati, chi lancia l’allerta… Detto in altre parole, coloro che sono impegnati in un agire volto a fare emergere una rappresentazione chiara dell’oggetto in questione.

Il problema è che, di fronte a minacce di cui siamo coscienti ma che sono vissute come astrazioni, rimaniamo paralizzati dall’angoscia. Al contrario, quando siamo in presenza di una causa ben identificata, è la paura a far da padrona. E la paura, diversamente dall’angoscia che è senza oggetto, spinge all’agire.

Per comprendere meglio la questione della percezione diffusa di una minaccia astratta, è utile rifarsi alla distinzione proposta in principio dal filosofo tedesco Leibniz e ripresa in neurofisiologia tra percezione e appercezione . L’essere umano, come tutti gli organismi viventi, vive in costante interazione materiale con l’ambiente.

La percezione consiste in questo primo livello d’interazione formato dall’insieme di “accoppiamenti” percettivi che l’organismo forma con l’ambiente fisico-chimico ed energetico.

Per illustrare questo dispositivo, Leibniz fornisce l'esempio di come comprendiamo il suono di un'onda. Spiega che abbiamo una percezione infinitesimale dei milioni di goccioline d'acqua che colpiscono il nervo uditivo, senza che siamo in grado di percepire il suono di ogni goccia d'acqua. È solo a un secondo livello, nella dimensione dei corpi organizzati, che possiamo costruire l'immagine sonora di un'onda. Ciò significa che solo una piccola parte di ciò che percepiamo della base materiale diventa un’appercezione, per poi partecipare ai fenomeni di coscienza.

La questione centrale è quindi capire quando e perché emerge un’appercezione. Ciò è determinato innanzitutto dall'organismo che percepisce: un mammifero e un insetto non produrranno ovviamente la stessa immagine appercettiva di un’onda. Nel caso degli animali sociali e in particolare degli umani, l’appercezione è anche condizionata dalla cultura e dagli strumenti tecnici con cui interagiscono. Gli ultrasuoni sono un buon esempio di come funzionano questi raccordi. A differenza di alcuni mammiferi, gli umani non percepiscono queste frequenze sonore senza articolare il loro sistema percettivo con macchine che permettono di fare emergere una nuova dimensione appercettiva.

Inoltre, se il livello appercettivo partecipa alla singolarità che designa l'unità organica, non deve comunque essere considerato come la specificità di un individuo o il risultato di una soggettivitàindividuale. Una singolarità può essere composta da un gruppo di individui, per giunta di natura molto diversa (animale, vegetale o persino un ecosistema), che partecipa alla produzione di una superficie appercettiva comune. Lungi dall'essere una specie di superorganismo che esisterebbe in sé, questa dimensione esiste in modo distributivo all'interno dei corpi che ne sono catturati. Ecco come è influenzato ogni singolo corpo. I corpi partecipano alla creazione di questa dimensione appercettiva comune, che a sua volta influenza e struttura i corpi. Correntemente questa dimensione si manifesta nella forma di ciò che siamo abituati a chiamare senso comune, che agisce socialmente come un'istanza reale di significato condiviso.

Oggi assistiamo a un evento storico e senza precedenti: per la prima volta, tutta l'umanità produce un'immagine della minaccia. Questa immagine non si riduce a una conoscenza scientifica dei fatti che hanno portato alla comparsa e alla diffusione del virus. Ciò che è profondamente in gioco è l'emergere di un'esperienza condivisa della fragilità dei sistemi ecologici, che è stata finora negata e schiacciata dagli interessi macroeconomici del neoliberismo.

La particolarità di questa appercezione comune sta nella cornice del suo emergere. Paradossalmente non è la pericolosità intrinseca della pandemia che la sta causando, ma piuttosto il sistema disciplinare che la accompagna. È questo dispositivo e non la minaccia in sé che ci mette in una nuova situazione. Ovviamente non lo possiamo comprendere valutandolo dall’angolatura della sola dimensione sanitaria. È questa trappola che porta alcuni a lanciarsi in sommarie contabilità macabre per contestare il carattere inedito della crisi, paragonandola ad altri flagelli.

Di fronte a questa nuova situazione, vediamo emergere due interpretazioni opposte. Da un lato, chi afferma che questo è un fatto molto grave, per il quale dovrebbe essere trovata una soluzione sotto forma di un vaccino o di un farmaco. In questa comprensione della crisi evidentemente non si mette in discussione il paradigma del pensiero e dell’agire dominanti. D'altra parte, un'altra interpretazione, a cui desideriamo contribuire, consiste nel vedere in questa rottura un evento autentico che sfida irreversibilmente l'ideologia produttivista fino ad ora egemonica. Il coronavirus è per noi il nome di questo punto critico che segna anche, almeno speriamo, un punto di non ritorno a partire dal quale il nostro rapporto con il mondo e il posto degli umani negli ecosistemi devono essere profondamente messi in questione.

 

3. Un’esperienza del comune

Se facciamo lo sforzo, nonostante l’orrore della situazione, di non rinunciare al pensiero, è possibile scorgere l’unica cosa che questa crisi ci permette di sperimentare positivamente: la realtà dei legami che ci costituiscono. Anche in questo caso, tuttavia, occorre evitare qualsiasi visione ingenua. Di fronte alla propria interiorità, ciascuno di noi è diverso. E quando la frenesia della vita quotidiana non permette più di auto-evitarci, alcuni di noi si rendono conto che hanno dei pessimi legami con se stessi e, in modo marginale, con il loro ambiente. A porte chiuse, il vero inferno è spesso con se stessi. Un odio per se stessi che finisce sempre per trasformarsi in un inferno per gli altri.

Da quando siamo confinati, ci siamo resi conto che siamo esseri territorializzati, incapaci di vivere esclusivamente in modo virtuale, mettendo da parte ogni elemento di corporeità. Milioni di individui fanno oggi l’esperienza nei loro corpi che la vita non è qualcosa di strettamente personale.

Le virtù tanto lodate del mondo della comunicazione e dei suoi strumenti si rivelano del tutto impotenti a farci uscire dall’isolamento. Nella migliore delle ipotesi riescono a mantenere l’illusione di riunire i separati in quanto separati.

Nel bel mezzo della crisi abbiamo acquisito almeno una certezza: nessuno si salva da solo. Con riluttanza, i nostri contemporanei sperimentano la fragilità dei legami che ci obbligano finalmente a superare l’illusione dell’individuo autonomo e serializzato. Capiamo che non si tratta di essere forti o deboli, “vincenti” o “perdenti”, ma che esistiamo, tutte e tutti, attraverso questa fragilità che ci permette di provare la nostra appartenenza al comune.

La vita individuale e la vita sociale ci appaiono finalmente come due facce della stessa medaglia.

Obbligati all’isolamento, scopriamo di essere attraversati da molteplici legami che non corrispondono affatto al disegno thatcheriano secondo il quale “non c’è società” ma solo individui.

È il desiderio del comune (desiderio della vita) e non la minaccia, che ci permette di agire in questa situazione. In questo movimento di ribaltamento, i nostri punti di riferimento abituali si invertono: non si tratta più solo di me stesso e della mia vita individuale. Ciò che conta ora è in che cosa questa vita viene inserita, il tessuto attraverso il quale acquisisce senso.

In questo momento in cui i legami sono ridotti alla pura virtualità comunicativa, ci sembra fondamentale pensare i limiti di questa astrazione. Pensare a ciò che non è sperimentabile tramite Skype o qualsiasi social network. Insomma, pensare a tutto ciò che costituisce in fondo la singolarità propria dei nostri corpi e delle loro esperienze.

 

4. Contro il biopotere

La finestra non si è solo aperta su nuove possibilità positive. L’esperienza che viviamo offre al biopotere un terreno di sperimentazione senza precedenti: la possibilità di disciplinare e controllare le popolazioni di interi paesi e continenti.

E’ sempre sorprendente (e allo stesso tempo inquietante) osservare con quale rapidità gli individui si lascino disciplinare quando la bandiera della sopravvivenza viene agitata.

Riconosciamo allo stesso tempo che vi è qualcosa di tragicomico nel constatare che la geolocalizzazione degli individui supponga che questi non nutrano l’idea terribile e perversa di lasciare semplicemente i loro smartphone sui comodini da notte.

La servitù volontaria è al suo apice quando il braccialetto elettronico del prigioniero diventa un telefono acquistato a caro prezzo.

Questa esperienza inedita di controllo sociale potrà allora servire come prova generale. È facile immaginare che in futuro non sarà difficile invocare l'emergenza di nuove minacce per giustificare tali pratiche di sorveglianza. In questo contesto la questione se siamo o no in guerra con il virus non è solo un dibattito retorico. Primo, perché ha implicazioni giuridiche concrete. In secondo luogo, perché ci fornisce un'indicazione di come questa crisi possa generare pratiche autoritarie durature.

 

Non siamo in guerra. Questa visione virile e di conquista è essa stessa parte del problema. Stiamo subendo le conseguenze di un regime economico e sociale aberrante e mortifero. Diffidiamo di questi discorsi marziali e dei rulli di tamburo che precedono sempre il sacrificio del popolo.

Il nostro obiettivo non è vincere una battaglia, ma assumere la fragilità del mondo, cambiando radicalmente il modo in cui lo abitiamo. Altrimenti una volta terminata la pandemia, il potere non esiterà, con i suoi toni da maresciallo vittorioso, ad arruolare la popolazione in nome della causa della patria economica.

Ci verrà poi detto che non è più il momento di pensare o protestare per i cambiamenti sociali strutturali (miglioramenti, ad esempio, nei sistemi sanitari). Qualsiasi richiesta di giustizia sociale passerà quindi per un tradimento della patria, perché sarà venuto il momento di dedicarsi al sacro compito: ripristinare l'economia e la crescita.

La storia ufficiale ci dirà innanzitutto che abbiamo vissuto, affrontato e vinto uno sfortunato incidente imprevedibile. Ci spiegherà poi che è necessario raddoppiare i nostri sforzi per superare la resistenza della natura all'onnipotenza umana. Ora, quello che in modo irresponsabile chiameranno un incidente era in realtà così imprevedibile che biologi ed epidemiologi l’avevano previsto da venticinque anni.

Tra i molteplici vettori all’origine delle malattie emergenti e riemergenti, si sa che la distruzione dei meccanismi di regolazione metabolica degli ecosistemi, legata in particolare alla deforestazione, svolge un ruolo preponderante. Inoltre, l’urbanizzazione selvaggia e la costante pressione delle attività umane sugli ambienti naturali favoriscono situazioni di promiscuità inedita tra le specie.

Qualunque sia la reazione dei governi, una cosa è certa: una nuova dimensione appercettiva, vale a dire una nuova immagine del disastro ecologico è emersa ed è incorporata nel senso comune.

Il dispositivo secondo il quale l'essere umano era il soggetto che doveva imporsi come padrone e possessore della natura ci appare sotto il suo vero volto da incubo.

 

5. Pensare e agire nella situazione presente

Come scriveva Proust, “i fatti non penetrano mai il mondo in cui vivono le nostre convinzioni”.

Non esistono fatti “neutri” che esprimono un significato in sé. Tutto esiste solo in un insieme interpretativo che gli conferisce senso e validità.

La scienza si occupa dei fatti e allo stesso tempo costruisce il proprio racconto interpretativo.

Contrariamente a quanto sostiene lo scientismo, l’attività scientifica non consiste nel produrre semplici aggregati di fatti nudi. Il racconto attraverso il quale la scienza ordina i fatti emerge da un’interazione con altre dimensioni che sono, tra le altre, l’arte, le lotte sociali, l’immaginario affettivo e più in generale l’esperienza vissuta. Tutte dimensioni che partecipano alla produzione del senso comune.

Di fronte alla complessità del mondo, la tentazione reazionaria ci invita a delegare il nostro potere di agire ai tecnocrati, quando non direttamente alle macchine algoritmiche. In questa visione oligarchica, gli scienziati sanno, i politici seguono e il buon popolo obbedisce. Ora, esiste un rapporto molto più conflittuale tra il pensiero critico e il senso comune, che non possiamo contrapporre. Il ruolo del pensiero strutturato non è certamente quello di ordinare e disciplinare il senso comune, ma piuttosto quello di aggiungere dimensioni di significato che possano diventare poi maggioritarie ed egemoniche. Per questo ogni progetto di emancipazione, lungi dal rappresentare la rivelazione di una scena nascosta di verità, è sempre una creazione libera di una nuova soggettività.

La fantasia di proiettarsi nella grande festa che seguirà il giorno della liberazione implica, nella sua comprensibile ingenuità, l’oblio dei processi che ci hanno portato alla situazione attuale. Eppure, questi processi non si ritireranno un giorno come un esercito sconfitto. Questi elementi continueranno a imperversare in varie forme.

È necessario che questa crisi non si concluda tra gli applausi scroscianti per una guerra vinta. Questo evento storico ci apre la porta all’appercezione comune dei vincoli di fragilità che costituiscono il nostro mondo.

Non sappiamo cosa ci aspetti e non abbiamo alcuna pretesa di prevederlo. Sappiamo, tuttavia, che le forze reazionarie di tutto il pianeta saranno pronte a trarre profitto dal disorientamento in cui saremo ancora immersi.

 

Così, nel cuore di questa situazione oscura e minacciosa, dobbiamo assumere questa realtà, non attendendo saggiamente che “andrà tutto bene”, ma preparando già qui le condizioni e i legami che ci permettano di resistere all’avanzata del biopotere e del controllo.

Questa situazione di crisi non deve indurci ad aumentare la delega delle nostre responsabilità. Si sarà visto che i “grandi di questo mondo” (questi nani morali), parlando di guerra, vogliono ancora una volta fare di noi, le loro risorse umane, “carne da cannone”. Solo una chiara opposizione al mondo neoliberista della finanza e del puro profitto, solo una rivendicazione dei corpi reali non sottomessi al puro virtuale del mondo algoritmico possono oggi essere i nostri obiettivi.

Come in ogni situazione complessa, dobbiamo convivere con un non-sapere strutturale che non è ignoranza, ma un’esigenza per lo sviluppo di ogni conoscenza. Non si tratta quindi di pensare al giorno che verrà, vivendo il presente come una semplice parentesi. La nostra vita si svolge oggi.

Ecco perché questo piccolo manifesto è un appello a quelle e quelli che desiderano immaginare, pensare e agire in e per il nostro presente.

 

Contact: collectifmalgretout.net

Pour le “Collectif Malgré Tout” France: Miguel Benasayag, Bastien Cany, Angélique Del Rey,

Teodoro Cohen, Maeva Musso, Maud Rivière

Per il “Collettivo Malgrado Tutto” Italia: Roberta Padovano, Mary Nicotra, Daniela Portonero

 
Le opportunità che offre il rallentamento imposto dalla pandemia PDF Stampa E-mail
Articoli
Scritto da MC Editrice   
Giovedì 02 Aprile 2020 14:00

Le opportunità che offre il rallentamento imposto dalla pandemia

Riflessioni alla luce dello Yoga

di Jacques Vigne

 

 In un momento in cui molti progetti individuali e collettivi vengono cancellati a causa dell'epidemia di coronavirus, possiamo ricordare le parole di Mâ Anandamayî: "Spesso non devi andare a cercare la rinuncia, viene da sé! " (per approfondire i suoi insegnamenti vedi il libro: La parola viva di Ma Anandamayi, MC Editrice 2017).

Ciò conduce ad una buona meditazione su questo mondo in cui le cose sono mutevoli come le onde dell'oceano e a capire la necessità di avvicinarsi all’impermanenza, di comprenderne il senso. La gente di solito considera l'impermanenza come il peggior nemico: un atteggiamento da rivedere.

Interiorizzare il rallentamento imposto dall'epidemia.

 L'epidemia di coronavirus è un grave rallentamento, non solo per l'economia, ma per la stessa accelerazione che si era gradualmente insinuata nella nostra vita quotidiana. Che ci piaccia o no, dobbiamo imparare a guardare le cose più lentamente. Questa lentezza, questa prospettiva in cui la morte è anche più presente. può offrirci maggiore profondità; vediamo più distintamente con due occhi piuttosto che con uno solo, e vediamo in senso più spirituale con l'apertura del terzo occhio dello yoga, che è quello di Shiva.

È proprio quando c'è un rallentamento, e ancora meglio, quando gli automatismi si fermano, che ci svegliamo. Per capirlo meglio, ci basta ricordare quei momenti in cui si è cullati nel sonno dal suono di un treno notturno e si è improvvisamente risvegliati nel momento in cui si ferma.

 Di fronte a questo obbligo di rallentamento, a questa sorta di colpo di arresto del destino, siamo portati a fare una scelta tra l’essere più interiorizzati e allo stesso tempo trovare nuove soluzioni per aiutare gli altri che si trovano in difficoltà - sia a causa dell'infezione diretta del virus, sia per i problemi materiali causati dalle restrizioni imposte- e il lasciarci andare alla distrazione/distruzione. Purtroppo, quando si è chiusi in casa propria, si ha comunque accesso a internet e a quei siti dove si possono vedere milioni di film, libri o musica praticamente gratis. È quindi possibile non interiorizzarsi affatto, passando l'intera giornata confinati in quattro mura! Bisogna essere consapevoli di questa tentazione e saper fare la scelta giusta.

 Questo rallentamento generale della società causata dalle attuali restrizioni è anche una sorta di clinica terapeutica, e in questo senso ci fa bene. Ricordo una riflessione di Swami Vijayananda.: ex medico francese, che divenne discepolo di Mâ Anandamayî e trascorse 60 anni in India, 18 dei quali in solitudine sull'Himalaya. Ho lavorato con lui per 25 anni, e ho potuto vedere quante volte le persone gli domandassero perché avesse trascorso così tanto tempo in solitudine. Spesso rispondeva: "Per me è stato un modo per rallentare la mente". Queste parole possono sembrare troppo semplici e anche un po' riduttive. Tuttavia, nella concezione dello yoga, quando la mente rallenta, il fango che contiene può depositarsi e si può vedere chiaramente il fondo. Si tratta quindi di un lavoro a lungo termine. In questo senso, i centri di ritiro spirituale rappresentano "cliniche di rallentamento" per una società che soffre di "accelerazione" acuta o cronica. Un altro consiglio che dava Swami Vijayânanda era di risparmiare le proprie energie per intensificare il progresso spirituale. Il ritorno a Se’ che impone l’isolamento va direttamente in questa direzione, purché se ne comprenda il messaggio. Come diceva Nietzsche, il vero coraggio è quello che si ha davanti a sé stessi. Il semplice fatto di stare a casa è un primo passo per sviluppare questo tipo di coraggio, e ha una sorta di valore iniziatico, soprattutto quando si è fatto ancora poco in tal senso nella propria vita.

Nelle culture primordiali, l'iniziazione dell'adolescente comporta spesso un periodo di pochi giorni da solo nella foresta. Al di là della capacità di sopravvivenza e di nutrizione in un ambiente selvaggio, c’è anche la separazione dall’ambiente familiare e sociale e l'esperienza diretta della solitudine. Oggi, per molti individui iper-socializzati, il fatto di dover stare a casa per qualche giorno o settimana sarà senza dubbio un'ottima opportunità. È loro responsabilità farne buon uso.

 Si oscilla infine tra due estremi, il rifugiarsi in molteplici distrazioni per ammazzare il tempo, e dall'altro lato, il rimanere paralizzati da una fissazione paurosa, ovviamente alimentata dai media. Nel primo caso diventeremo una specie di tossicodipendenti che tracannano film per evitare di percepire il malessere esterno ed interno. Ci sono molte persone che vivono questa situazione. Ho letto recentemente che in Francia le persone trascorrono in media due ore al giorno davanti allo schermo, soprattutto guardando film e utilizzando social network, consapevoli dell’inquinamento verbale e della violenza delle immagini, agendo in modo completamente irresponsabile.  Considerando infatti che le notizie che possono essere di livello e interesse più elevato rappresentano in media solo due minuti su due ore.

Quando prendiamo coscienza di questo, abbiamo il diritto di essere tristi e possiamo allora cercare di esprimere desideri universali di felicità , come per esempio: "Che tutti gli esseri possano stare bene, essere felici e in pace" ...

 C'è un modo per trovare la via di mezzo, da un lato approfittare della relativa solitudine per rallentare la mente come raccomanda lo yoga, e dall'altro tenersi informati sulla realtà esterna. Liberare il tempo rappresenta una porta che si apre alla luce dell'esperienza profonda. Deve essere spinta per essere oltrepassata e non si deve lasciare che la corrente d'aria, cioè qualsiasi capriccio o divertimento, la possa far chiudere facendola sbattere. Potremmo dire, con occhio critico, che c'è una giustificazione che sembra in sè banale ma in realtà è dannosa: "Sì, ma sto guardando questo o quest’altro… perché è interessante! "

Ci sono miliardi di cose interessanti, eppure le nostre vite sono limitate dal tempo, che è ciò che ci ricorda anche questo periodo di epidemia. Quindi dobbiamo sapere cosa stiamo cercando. Un vuoto relativo del  proprio uso del tempo è già un modo per percepire questo vuoto, un termine con cui i buddisti si riferiscono alla realtà sottostante. Una volta il Buddha prese una manciata di foglie da terra in una foresta e chiese ai suoi discepoli se comprendevano il loro significato. Di fronte alla loro curiosità, disse: "Queste poche foglie rappresentano l'insegnamento che vi sto dando, l'insegnamento che porta alla Liberazione. È ben poco, rispetto alle infinite conoscenze che sono così numerose quanto tutte le foglie della foresta! »

 

Le cause alla radice dell'epidemia e la tentazione dell'onnipotenza.

      Se osserviamo le cause di questa epidemia, possiamo trovare due ipotesi principali, entrambe in relazione al declino dell'umanità afflitta da idee di onnipotenza. La versione ufficiale è che si tratta di un virus che proviene da animali selvatici uccisi e venduti nei mercati della Cina. Perché gli esseri umani vogliono nutrirsi di animali uccisi quando le piante sono sufficienti? Ci sono alcune centinaia di milioni di vegetariani su questo pianeta che sono la prova vivente che le piante sono davvero sufficienti. Non è un sentimento di onnipotenza che spinge un certo numero di esseri umani a dire a se stessi che è normale che gli animali sacrifichino la loro vita per soddisfare non i loro bisogni, ma solo i loro desideri?

Idee per curare la paura in questo periodo di epidemia.

 Alcuni atteggiamenti e rimedi in generale sono già buoni per prevenire o curare la paura. Ne ho parlato nel mio articolo abhaya, la non paura che si trova sul sito. C'è sicuramente in generale l'idea che il pensiero sia creativo, pertanto coltivando molti pensieri paurosi, si hanno più rischi che la profezia si realizzi . Tuttavia, questo argomento ha anche i suoi limiti, perché un po' di ansia può spingerci a prendere delle misure più restrittive per contenere l'epidemia a livello individuale e collettivo, e questo è a priori una buona cosa. Anche in questo caso, non dobbiamo perdere il senso della via di mezzo o il buon senso.

 Poiché siamo in una prospettiva yoga per affrontare questa epidemia, possiamo riflettere sull'archetipo della danza Tandava, la danza della morte di Shiva. Questa è la storia: a causa di un conflitto con il padre re Daksha, che si era rifiutato di invitare il marito Shiva a un grande sacrificio che stava organizzando, Sati si recò comunque sul luogo del sacrificio e si  suicido’ gettandosi sul fuoco acceso. Shiva scappò, prese il corpo della moglie sulla sua spalla e fuggì, seminando morte e distruzione sul suo cammino a causa della furia e del dolore. Vishnu, vedendo ciò ed essendo lui stesso responsabile della protezione del mondo, si avvicinò cautamente da dietro e fece a pezzi il corpo della dea alleggerendo così il peso di Shiva. Dal corpo uscirono cinquantadue parti, e ognuna di esse cadde sulla terra e creò un tempio alla dea. Si possono distinguere almeno due livelli di interpretazione di questa storia, metafisico e psicologico: dal punto di vista metafisico, significa per l'induismo esiste una sola grande dea, la Mahadevi, e che le molteplici dee venerate in questi 52 templi ne sono solo le sue sfaccettature. Dal punto di vista psicologico, questo racconto rappresenta una critica all’attaccamento appassionato che porta alla distruzione. Questo può valere anche per la nostra situazione attuale? Sì, in un certo senso: già a livello pratico, chi è molto attaccato al proprio stile di vita e non vuole assolutamente cambiarlo non prenderà misure di protezione adeguate, e rischierà più la propria distruzione e quella delle persone che potrebbe contaminare. Questo è un aspetto, anche se non è l'unico. Per prima cosa, per molte persone, uscire la sera, andare in vacanza dall'altra parte del mondo è la cosa più bella della vita, ma non vedono la morte che è subito dietro di loro in questo periodo, così come Shiva non riusciva ad accettare che sua moglie fosse morta e che lui le fosse così affezionato come se potesse tornare in vita. Mâ Anandamayî ha fatto un gioco sul significato della parola in hindi, vishaya, visha: gli oggetti dei sensi, vishaya, sono veleni, visha. Ha anche detto che sono veleni lenti che minano la nostra energia senza che ce ne accorgiamo. Naturalmente, questo non va in direzione di una società di consumo, ma piuttosto verso una profonda saggezza. Tuttavia, riconosciamo che per meditare adeguatamente su questo argomento, saremo notevolmente aiutati dal fatto che abbiamo già risvegliato un certo livello di gioia interiore. In questo periodo di reclusione, il "cadavere del corpo amato" Sati che dobbiamo lasciar andare corrisponde ai nostri piani a breve e medio termine, e anche per molti, al nostro sostentamento. Se lo lasciamo andare senza resistenze sarà un aiuto al progresso spirituale; se lo facciamo con asprezza, sarà un ostacolo. Una buona soluzione può essere anche quella di fare come fanno alcuni italiani, che si lasciano andare in libertà al movimento...cantando sul loro balcone! Alla maniera di bhakti, della devozione indù, si dice che se si espira senza cantare un mantra, si espira per niente.

        Una cura per la paura dell'epidemia è saper ridere della morte: a questo proposito la cultura messicana è esperta, offre molte rappresentazioni ironiche intorno alla morte, come scheletri vestiti da spose e sposi, o con il cilindro e il sigaro, o in bicicletta! Adottare misure ragionevoli per proteggere se stessi e gli altri dal virus non ci impedisce di ironizzare sulla situazione attuale. Sappiamo che la risata favorisce l'immunità, quindi dobbiamo usarla saggiamente in questo momento.

 Agli esseri umani non piace l'incertezza, eppure questa è la situazione in cui ci troviamo. Nessuno, nemmeno gli esperti, può, ad esempio, stimare la durata dell’epidemia. Ragion per cui meglio lasciarsi andare e, ad esempio, meditare sulla frase zen: "Di momento in momento, apri la tua mente e apri la tua mano". Anche in questo senso, un grande maestro di meditazione thailandese, Ajahn Shah, consigliava una meditazione a cui attribuiva grande importanza, e che definiva addirittura cruciale: "Non sono sicuro! "Ogni volta che una sensazione, un'emozione, un impulso sale in noi, noi rispondiamo con "Non sono sicuro! "Questo non significa che dobbiamo dubitare dei valori fondamentali dell'essere umano o della necessità di progredire spiritualmente, ma dobbiamo mettere in discussione il nostro funzionamento automatico, le nostre sensazioni - emozioni che ci portano in una direzione o nell'altra senza esserne consapevoli. È quindi bello poter accettare che il futuro, anche quello prossimo, non è sicuro, e poterne sorridere.

  C’è una poesia Zen il cui primo verso dice: "Al mattino mi sveglio e sorrido". Ogni giorno ha la sua parte di incertezza; se lo si percepisce da subito e si sorride, si parte ogni giorno con il piede giusto. E ancora di più, non è solo al mattino, quando ti svegli, che devi imparare a sorridere, ma occorre farlo di fronte a tutto ciò che ti sveglia mentalmente, cioè a tutte quelle piccole o grandi cose che non accadono esattamente come vorresti. E ovviamente, un'epidemia non è ciò che gli esseri umani vogliono. Così ci sveglia il virus e se prendiamo questo risveglio con un sorriso, può diventare una causa di Risveglio. C'è solo una r caduta in mezzo per passare da un termine all'altro, è come la "rrrra" dell'irritazione...

 La tendenza dei gruppi umani è quella di stimolare la loro energia e la loro unità trovando un capro espiatorio. Questo meccanismo è sempre negativo e crea molti problemi, ma usare il coronavirus come capro espiatorio per stimolare la nostra lotta contro di esso è, d'altra parte, un atteggiamento accettabile. Non si può parlare di paura di questa epidemia attuale e dissociarla dalla tendenza a prevedere, o addirittura auspicare la fine della civiltà attuale, con una sorta di effetto domino o di "collasso", come dicono gli inglesi. In effetti, un'epidemia che ucciderebbe una buona parte della popolazione andrebbe in quella direzione. Da un punto di vista psicologico, cosa c'è dietro queste paure? Certamente un enorme senso di colpa che è particolarmente vivo in Occidente. Per esempio, nell'induismo e nel buddismo, le nozioni di fine del mondo e di Apocalisse sono molto meno presenti, anche se in entrambe le tradizioni si trova una visione della fine del mondo. L'Occidente moderno riconosce nel profondo di coltivare molti comportamenti non corretti, e che la modernità stessa è diventata il più grande predatore che il pianeta abbia mai conosciuto. Da qui nasce un senso di colpa represso che tende a manifestarsi sotto forma di delirio. La vera difficoltà è tracciare la linea di demarcazione tra una paura ragionevole e una possibilità negativa del futuro che non va trascurata, e il delirio apocalittico.

     Negli Yogasoutra di Patanjali, II, 16, si dice heyam dukhamanâgatam, "si deve evitare la sofferenza futura". Questo evoca l'insegnamento centrale del Buddha nelle Quattro Nobili Verità, ariya-saccha, la sofferenza, la sua origine, la sua fine e il fatto che può essere completamente superato[i]. Questa capacità di evitare deriva dalla comprensione e, in questo momento, già dalla prevenzione della contaminazione: oltre ad adottare un trattamento corretto se si è contaminati, più in generale, prevenendo la sofferenza dovuta al cambiamento, sciogliendo e disintegrando le proprie fissazioni mentali, sia grossolane che sottili.

 Rimanere a casa offre un grande riposo, e diventa cibo per l'anima. La lingua francese non ci strizza l'occhio mettendo insieme le parole "riposo" e "pasto"? Inoltre, la disciplina da tenere in questo periodo di epidemia ci dà dei limiti che possono diventare di per sé una meditazione se ricordiamo l'adagio Zen: "Quando accettiamo i nostri limiti, diventiamo senza limiti". Il significato è chiaro, sta a noi integrarlo nella nostra vita quotidiana comprendendo come applicarla caso per caso.

 Questa situazione pandemica, inaspettatamente, stimola la nostra attenzione. Se vi aggiungiamo l'altruismo, avremo queste due qualità fondamentali che ci permettono non solo di essere felici, ma anche di rendere felici gli altri, sviluppando la vigilanza e la benevolenza.

 

 



[i] Vedremo a questo proposito l'interessantissimo libro di SN Tendon pubblicato dall'Istituto di Ricerca Vipassana di Igatpuri A Re-Approasal degli Yogasutra di Patanjali alla luce dell'Insegnamento di Buddha. Può essere ordinato dagli Stati Uniti. Un altro libro con un maggior numero di pagine sullo stesso argomento e sullo stesso titolo sarà pubblicato a giugno da Routledge e Keagan, di Prtadeep Gokhale.

 
Coronavirus e vitamina D PDF Stampa E-mail
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Scritto da MC Editrice   
Domenica 29 Marzo 2020 10:30
Il 26 marzo, la Repubblica ha pubblicato sul proprio sito un articolo dal titolo "Coronavirus, studio dell'Università di Torino: assumere più vitamina D per ridurre il rischio di contagio" in cui si riporta come gli scienziati dell'Università di Torino consiglino di assumere vitamina D per combattere la pandemia da coronavirus.
Secondo uno studio, al momento sottoposto ai soci dell’Accademia di Medicina di Torino, vengono analizzate le possibili concause per il contagio da Covid-19 e propone la vitamina D non certo come cura, ma come strumento per ridurre i fattori di rischio.

A questo proposito rimandiamo a quanto pubblicato il 3 marzo su questo stesso sito: un articolo inviatoci da Jacques Vigne, dal titolo "Vantaggi dell'integrazione di vitamina D per la prevenzione della contaminazione da coronavirus" in cui si parla proprio di come la vitamina D possa rivelarsi utili nelal prevenzione della contaminazione.
 
Coltivare la “non paura” PDF Stampa E-mail
Articoli
Scritto da MC Editrice   
Martedì 24 Marzo 2020 12:26

Coltivare la “non paura” Abhaya

di Jacques Vigne

 

 

  L'assenza di paura è una qualità fondamentale dello yoga. Deve essere coltivata fino alla realizzazione. In questo senso, il saggio Yâjñavalkya dice nelle Upanishad al suo discepolo, l'imperatore Janaka: "Janaka, tu sei realizzato, perché hai raggiunto la non paura! "

Certo, la paura e l'ansia sono anche segni di realismo: possono risultare un segno di prudenza, molto semplicemente. Dal punto di vista della medicina, l'ansia deriva da un eccesso di stress, a volte improvviso, ma il più delle volte cronico. Quindi non è sempre legata a un singolo trauma, come nella sindrome da ansia post-traumatica, ma diventa una modalità di essere cronica e pervasiva, ed è questo il problema. Da un punto di vista tradizionale, ci si potrebbe chiedere perché parliamo di questa qualità di coraggio in modo negativo, abhaya, che significa assenza di paura, “non paura”. C'è una semplice ragione per questo: la nostra vera natura è la pace, e se ci asteniamo dal commettere errori strategici e tattici nella gestione di noi stessi, rimarremo in questo stato fondamentale, senza fabbricare artificialmente ogni tipo di paura inutile. L’obbiettivo principale è quello di essere nella rettitudine delle azioni, delle parole e dei pensieri. Se arriviamo a questo punto, non abbiamo nulla da temere da noi stessi, e per una sorta di estensione naturale, abbiamo molto meno da temere dal mondo esterno. Questa è la soluzione profonda all'ansia, ma prima che questo possa essere raggiunto, un buon numero di comprensioni parziali e tecniche pratiche sono utili.

 

Capire l'ansia

       Sono passati 35 anni da quando ho completato la mia formazione come psichiatra, e dopo aver lavorato per 5 anni in un ospedale psichiatrico per i miei studi e il servizio di cooperazione, sono partito per l'India. Torno regolarmente in Francia e un anno fa ho finito un grande tour che è durato 2 anni. Vado di città in città e, durante l'estate, da un luogo all'altro della campagna francese per periodi che vanno generalmente da 5 giorni a una settimana. Rispondo a migliaia di domande di migliaia di persone, e certamente, l'ansia, la paura diffusa rappresenta una sofferenza di fondo molto reale per la maggior parte delle persone. La cosa positiva è che induce le persone a fare un lavoro su se stesse. Quando hanno constatato che i migliori tranquillanti sono solo sintomatici, capiscono che devono arrivare alla radice del problema. Quando ero uno specializzando in psichiatria e avevo in cura pazienti gravi, avevo cercato di introdurre tecniche corporee anche per loro, e il modo migliore che ho trovato per penetrare le loro difese, altrimenti ben chiuse, era quello di offrire soluzioni naturali all'insonnia e all'ansia. A nessuno, anche ai pazienti più gravi, piace girarsi tutta la notte in cerca di sonno, e a nessuno piace condurre una vita sentendo un grosso nodo stretto al plesso o alla gola, con le ganasce serrate come i bulloni sulle viti.  Da qui l'interesse delle pratiche psico-corporee.

 L'ansia dà origine a tutti i tipi di disturbi derivati. Per esempio, uno studio dell'Università di Upsala, che cito dal mio libro sull'anoressia (Anoressia e conoscenza interiore, MC Editrice, 2010) mostra che un gruppo di circa 270 adolescenti con disturbi alimentari non aveva nulla in comune nel loro profilo di personalità se non l'ansia.

     Quando lo stress diventa cronico, si trasforma in angoscia, e quindi in ansia. Come sappiamo, lo stress stimola il simpatico e inibisce il parasimpatico. Pertanto, nel trattamento dell'ansia, si apre un ampio spazio alle pratiche psico-corporali che portano ad un aumento del tono parasimpatico. L'hathayoga e la meditazione sono naturalmente in cima alla lista delle pratiche possibili.

 La non paura, quando è ben sentita, è terapeutica. Al contrario, la tendenza abituale della mente è quella di fuggire. Per esempio, mentre registravamo il movimento degli occhi, abbiamo notato questo: quando mostravamo ai volontari una grande immagine con una rappresentazione sgradevole o addirittura spaventosa nell'angolo in basso a sinistra, prima la guardavano e poi, senza neanche accorgersene, evitavano accuratamente quella zona dell'immagine. È lo stesso quando la nostra attenzione si rivolge al corpo e alla psiche. Per questo è molto importante affrontarlo, quando vogliamo trovare soluzioni profonde alla sofferenza. Come dice il grande maestro buddista thailandese Ajahn Shah, in una formula che usa spesso: "Quando fuggiamo dalla sofferenza, fuggiamo verso la sofferenza". Prende come semplice esempio la spina nel piede. Se lo trascuriamo e non vogliamo pensarci, possiamo tenerla per tutto il nostro cammino e continuerà a farci male. Quindi la soluzione giusta è fermarsi, guardare esattamente dove si trova e trovare un modo per rimuoverlo. La meditazione consiste intanto in questo: sapersi fermare, esaminare il proprio corpo vissuto, individuare dove si trovano le "spine" e lavorare per estrarle.

     È noto che Patanjali definisce lo yoga come citta-vritti-nirodha. I Vrittis sono quei vortici che raramente cessano. La parola ha la stessa radice di "vrille" in inglese. Si potrebbe dire che la meditazione nello yoga consiste nell'impedire alla mente di disperdersi in tutte le direzioni, e che così facendo, di impedire di andare in giro ... Poter fermare un meccanismo che si ripete automaticamente è già un segno di impavidità. Così è per la perseveranza, e nonostante i difficili alti e bassi, ci porta a uno stato di armonia. In sanscrito e in hindi chiamiamo la perseveranza titiksha, "tik" significa ciò che è stabile, e tik hê in hindi significa "tutto va bene". Se perseveriamo attraverso molteplici stati interiori positivi o negativi, arriviamo a quel luogo nel profondo di noi stessi dove "tutto va bene". Si diventa stabili come una montagna, si comincia a meritare il nome di Abhayagiri, montagna dell'impavidità, che era il nome di un principe di Ceylon, poi del grande monastero buddista da lui fondato nella capitale dell'epoca, Anuradhapura. È stato abitato per otto secoli da più di 5000 monaci. Si può dire che l'ideale centrale che gli veniva offerto in questo luogo era la non paura.

 

 

 

Alcune pratiche per stabilizzare la non paura.

 

 - Postura:

 Possiamo già sottolineare che l'hathayoga nel suo insieme rappresenta una pratica di impavidità all'interno del corpo. Il corpo teme di esagerare nella postura e resiste, ma a poco a poco viene portato a superare se stesso e ad andare oltre le sue paure. Progressivamente, questo sviluppo dell'assenza di paura si diffonde alla psiche e al nostro essere spirituale. La posizione del loto ci permette inoltre di ancorarci, e quindi di diminuire le nostre paure. Con l'intreccio delle gambe che favorisce, crea un risveglio diretto del cervello che ci dà fiducia aumentando la nostra capacità di reagire a eventi inaspettati. Ci dà anche la sicurezza di un abbraccio, un'unione che può essere interpretata come una forma di matrimonio interiore. Infatti, il lato sinistro del corpo è tradizionalmente considerato femminile, mentre il lato destro maschile. L'intreccio dei due può così evocare l'incontro d'amore. Molte persone evitano questa postura perché hanno paura dei piccoli dolori che causerà dopo un po'. Qui dobbiamo comprendere una notevole differenza tra due grandi scuole di buddismo, quella del Sud, Theravada, e lo Zen giapponese: in quest'ultima tradizione i monaci devono guadagnarsi da vivere, spesso con un lavoro nei campi che li coinvolge fisicamente in modo significativo. Si siedono in meditazione solo a certe ore del giorno. Così facendo, possono permettersi di fare il loto completo. Invece, i monaci Theravada vivono esclusivamente di donazioni e del loro insegnamento, e in alcune delle loro scuole meditano la maggior parte della giornata. In questo tipo di situazione, il mezzo loto è più adatto.

     I soggetti ansiosi tendono ad accartocciarsi su se stessi. È bene lasciare che questa inclinazione si esprima consigliando spesso la postura del lenzuolo piegato e le posizioni di piegamento in avanti, per poi procedere gradualmente verso posizioni di apertura, di piegamento all'indietro e di torsione che faranno uscire il praticante dalla prigione psico-corporea che si è fatto da sé.

- Respirare:

 

      Possiamo sviluppare qui in particolare la respirazione di ampiezza decrescente, ancora chiamata "respirazione piccola" che porta secondo i testi dello yoga al kévala khumbaka, dove il corpo respira a malapena. Si tratta di una pratica fondamentale di impavidità e di un buon antidoto all'ansia, dove invece il soggetto ha sete di aria. Chi è veramente tranquillo non ha sete d'aria come un alcolizzato ha sete di bevande forti, anzi è un "piccolo respiratore", come altri sono "piccoli mangiatori". Il piccolo respiro consiste semplicemente nel prendere qualche centimetro cubo d'aria in entrata e in uscita, di solito ad un ritmo piuttosto veloce. Ciò che accade poi fisiologicamente è abbastanza facile da capire: l'ossigeno va e viene nelle narici e nella faringe, mentre l'anidride carbonica fa lo stesso nella rete dei bronchioli e degli alveoli polmonari, e non c'è quindi un efficiente scambio di gas. Di conseguenza, l'ossigeno nel sangue diminuisce, il che fa sì che il cuore rallenti automaticamente, e l'anidride carbonica aumenta nel cervello, ciò fisiologicamente causa sonnolenza. Questa sonnolenza, quando si ha la schiena dritta e si è determinati a meditare, viene reinterpretata come un ingresso nella meditazione profonda. Questo stato di calma molto reale nel corpo è indotto direttamente dal piccolo respiro (che è anche molto usato nella meditazione taoista) ed è profondamente terapeutico. Praticata regolarmente e con consapevolezza, questa piccola respirazione ha il potere di sradicare lo stress e i suoi effetti, così come l'ansia.

  Il termine stesso kumbhaka, che in sanscrito significa "vaso", evoca la stabilità. Ricordo gli incontri con diverse centinaia di persone che ho visto in India durante la Kumbha-mela: al mattino presto, ogni pellegrino si accovacciava davanti a un vaso pieno d'acqua del Gange, e praticava il kumbhaka, l'arresto dei polmoni e dell'addome pieni, che trasforma il tronco in una specie di vaso. Si trattava di uno degli esercizi principali di questo pellegrinaggio il cui nome stesso significa: "la raccolta del vaso". Questo, riempito con l'acqua del Gange, è il simbolo del corpo riempito con il Sé. Se il corpo è molto fermo, non ci sarà alcuna perdita dell'"acqua" del Sé, e quindi nessuna ansia che ci possa esaurire per una sorta di emorragia energetica.

 Un consiglio importante per praticare questa piccola respirazione è questo: la mancanza d'aria provoca una tensione generale dei muscoli respiratori ausiliari del collo, e per estensione anche la mandibola e il viso si contraggono. Un'istruzione di base è quindi quella di rilassarli costantemente. L'efficacia di questa pratica è proprio quella di far emergere, per meglio scioglierle, le tensioni nel collo che si originano nell'ansia quando si ha sete d'aria, e si contraggono così i muscoli respiratori ausiliari situati nel collo. È un lavoro lungo, simile a quello di Ercole che tagliava costantemente le teste dell'Idra di Lerna che si riformano man mano che si va avanti... Inoltre, quando si inizia una seduta con le tensioni delle attività appena precedenti, è meglio respirare più profondamente per ossigenare il corpo. D'altra parte, quando si comincia ad andare in uno stato più profondo, è giusto diminuire l'ampiezza della respirazione per adattarsi alle reali esigenze del corpo e questo è il momento in cui il respiro ridotto si assesta in modo abbastanza naturale. Non è che un respiro sia migliore dell'altro, ma ciò che è importante è che si adatti alle reali esigenze del corpo in ogni fase della pratica.

- Concentrazione sull'hara:

 

       La paura tende a farci raggomitolare su noi stessi, e quindi ad allungare i muscoli dell'addome che sostengono la zona hara, tre o quattro dita sotto l'ombelico. La liberazione della paura sarà quindi molto legata alla capacità di rilassare questo hara momento per momento. Un metodo fondamentale è quello di mettere energia nel muscolo antagonista corrispondente, cioè i muscoli lombari che permettono di svuotare i reni e di raddrizzare la schiena. Con l'automatismo fisiologico, questi muscoli antagonisti ovvero gli addominali si rilasseranno, e una radice importante della paura del corpo sarà tagliata. Gli hathayogis, che si preoccupano soprattutto di non rischiare danni fisici, possono consigliare una diversa posizione delle vertebre lombari in varie posture, ma in meditazione i rischi in questo senso sono pochi e ci si può concentrare direttamente sulla trasformazione della psiche. A questo punto, il risveglio e il mantenimento della non paura sarà uno strumento di scelta per farla evolvere. Questo lavoro completo sulla non paura può portare rapidamente al satori (risveglio, samadhi) se seguiamo ciò che ci spiega il grande maestro zen del XVIII secolo Hakuin. Con la sua esperienza, sia come praticante che come insegnante, ha assegnato ad ogni koan, ad ogni enigma zen tradizionale, un determinato numero di giorni per ottenere il satori. Il più rapido ed efficace secondo lui è stato il koan sottostante, e cercheremo di decifrarlo il più possibile perché è legato al risveglio dello hara e allo sradicamento dell'ansia:

 

Kikai (l'hara), tanden ("l'oceano di cinabro" due dita sotto l'hara)

È il Vuoto di Chao-Tcheou.

 

 Cominciamo spiegando il koan di Tchao-Tchéou di cui parla Hakuin. Si trattava di un maestro di T'chan cinese a cui un discepolo aveva chiesto: "Anche un cane ha la natura di Buddha?"; il maestro aveva semplicemente risposto gridando: "Mou! "Vuoto", cioè "Vuoto". La natura di Buddha è legata al vuoto, e permea tutto, compresi quegli animali tradizionalmente considerati impuri come i cani. Simbolicamente, il cane è un animale che può passare dietro di noi e mordere i nostri vitelli, ed è quindi associato alla paura del pericolo proveniente da dietro, e quindi all'ansia. Se vediamo come vuote, cioè completamente rilassate, tutte queste tensioni corporee legate alla paura, questa scomparirà completamente e raggiungeremo abhaya, lo stato di perfetta non paura che è l'espressione spontanea della natura di Buddha, o del Sé. La paura ritrae la zona hara, da cui l'immagine compensatoria dell'"oceano di cinabro" che evoca l'espansione e la trasformazione. Il cinabro è una sostanza alchemica. Il piombo delle paure e delle ansie si trasforma in oro in questo oceano di luce, così si svolge l'alchimia meditativa. Dalla nascita, il cordone ombelicale è stato tagliato, ma ora lo stiamo restaurando in modo sottile. Ci collega all'oceano di luce. In un'immagine simile, possiamo dire che l'hara sveglio e rilassato è come questo sole che dissipa le ansie, come se fossero le nebbie della valle al mattino presto.

 

- "de-fissazione".

 

  La fissazione e l'ansia sono due facce della stessa medaglia: se si "resta incatenati" ad un oggetto e lo si desidera intensamente, si inizia automaticamente a temere che esso scivoli tra le dita e che cada a pezzi. Un modo per "de-fissare" a cui il maestro buddista thailandese Ajahn Shah attribuisce grande importanza è il "non so"!». Possiamo, per esempio, fare un massaggio del corpo e poi accogliere con un piccolo sorriso ogni sensazione che viene fuori e cerca di attirare, di sedurre la nostra attenzione, pronunciando la parola: "non so, non sono sicuro! ". Se sei sicuro di qualcosa, è come stringere la mano a qualcosa di cui pensi di non poter fare a meno. Avrete sempre paura che qualcuno venga a portarvela via con la forza. Se non sei sicuro, significa che hai già lasciato andare l'oggetto in precedenza, quindi non hai paura di essere catturato. Questo "non so" è quindi un antidoto fondamentale contro ogni tipo di paura, è liberatorio come il "Chi sono io" di Ramana Maharrshi. Il suo metodo è quello di osservare tutte le risposte dell'Io che possono essere ricondotte a questa domanda, e di non fissarle, ma piuttosto di considerarle "insicure" per poter andare ogni volta oltre. Come c'è solo una cosa permanente ed è l'impermanenza, così c'è solo una cosa certa, è questo "non so". Assimiliamo dunque questa pratica nella nostra vita quotidiana, viviamo con gioia, con umorismo e amore, facciamo ciò che è giusto per gli altri e per noi stessi, e il fiume della nostra esistenza scorrerà splendidamente.

 

- Fa’ ballare la paura.

 

 Nella danza indiana, una delle regole è che il ballerino deve osservare regolarmente i movimenti delle mani. Dato che queste si muovono molto a sinistra o a destra, lui o lei fa spesso movimenti ampi con gli occhi. Di conseguenza,  ciò induce un disturbo dell'equilibrio che costringe il corpo a rilasciare quasi istantaneamente tutte le tensioni, per trovare una nuova serie di contrazioni che permettono di riequilibrare le cose. Così, anche le profonde tensioni legate alle radici corporee dell'ego e dell'ansia si lasciano andare tutte insieme. Il danzatore può diventare un canale purificato del divino, e svolgere meglio il suo ruolo di incarnazione di una forma di questo divino, perché l'ego è stato attenuato, in particolare attraverso i movimenti degli occhi.

 Questo meccanismo interno percepito intuitivamente dalla danza indiana è riemerso grazie all'ormai noto metodo EMDR (Eye Movements Desensitizing and Reconditioning). Un'intera letteratura mostra la sua potente efficacia, anche dopo forti traumi, come l'avvicinarsi della morte in guerra, ecc. La prima cosa è visualizzare e sentire in quale parte del corpo si radica la paura su cui vogliamo lavorare. La nostra motivazione sarà stimolata anche dalla comprensione che non è isolata, ma che nasconde tutta una serie di altre paure alle spalle, che sono vissute dal nostro inconscio come analoghe alla prima. Possiamo iniziare con un ampio movimento orizzontale degli occhi e poi ridurre l'ampiezza dell'oscillazione. Se a ciò si aggiunge una riduzione dell'ampiezza della respirazione, si combina l'effetto di intossicazione che il movimento dell'occhio induce con l'intossicazione prodotta dalla riduzione dell'ossigeno e dall'aumento dell'anidride carbonica dovuto al respiro corto, come abbiamo visto sopra. Non si tratta di lavorare sempre con una grande oscillazione degli occhi, ma di fare una successione di serie di movimenti di ampiezza decrescente. Così, passiamo dal materiale al sottile, e seguiamo l'insegnamento del Buddha che confidò ai suoi discepoli: "Sono venuto a insegnarvi il sottile".

- La gratitudine:

 

     Praticando questo, si tocca gradualmente un nucleo profondo del nostro essere: il lamento del bambino che non può esprimersi se non piangendo e l'ansia profonda che prova a causa della sua completa dipendenza dagli altri. Quando siamo felici, non abbiamo più paura di essere abbandonati, e così ci allontaniamo da una causa fondamentale di ansia.

 

- Sciogliere la paura dello straniero.

 

 Fino a circa nove mesi, il bambino non ha paura degli estranei, poi impara a distinguere tra estranei e familiari. Il lavoro psicospirituale consiste nel tornare all'origine, e quindi superare questa paura degli estranei. In sostanza, tutti gli esseri umani sono fatti della stessa farina, tutti cercano di trovare la felicità e di evitare la sofferenza. Allora perché avere paura degli altri? Possiamo meditare in questo senso su una risposta data da Mâ Anandamayî, quando le fu chiesto se non fosse stanca di vedere ogni giorno folle di gente nuova. Rispose semplicemente: "Per me non ci sono nuovi arrivati". Infatti, vedeva in tutti lo stesso Sé come in se stessa. Quando le è stato chiesto se non aveva paura di andare spesso, come faceva, in luoghi sconosciuti, ha risposto: "L'universo è il mio appartamento, hai paura di cambiare stanza? »

 

- Ridurre i desideri per ridurre le paure.

 

 Si tratta di una proposta che non sarà popolare in una società consumistica, dove siamo portati a credere, esplicitamente o implicitamente, che se si paga, si ha diritto a tutto. In realtà, però, le cose non succedono affatto così. La paura rappresenta l'altra faccia della medaglia in relazione al desiderio, per la buona ragione che anche se l'oggetto del desiderio viene ottenuto, avremo sempre paura di perderlo. In alcuni ambienti spirituali si sente spesso un consiglio semplicistico a questo proposito: "Non sei sufficientemente ancorato, quindi devi sviluppare l'attività sessuale per ancorarti ulteriormente". Qui si gioca il gioco del doppio o niente: quando l'attività sessuale si svolge in buone condizioni di stabilità e fedeltà, può effettivamente aiutare ad ancorarsi, altrimenti sarà piuttosto destabilizzante. E anche se è stabile, chi può dire per quanto tempo? Quindi dobbiamo seguire questo consiglio dell'ancoraggio attraverso l'attività sessuale con un granello di sale, parlo qui dal punto di vista di uno psichiatra che ha sentito molte storie da molte persone negli ultimi 40 anni.....

 

- Smetti di respirare.

 

 Per mostrare come lo sviluppo della non paura sia legato alla pratica, possiamo riportare due risposte di Ajahn Shah, il maestro della scuola Theravada dei monaci della foresta thailandese di cui abbiamo parlato prima. Era piuttosto ironico, per esempio, quando gli è stata posta l'eterna domanda: "Come posso calmare la mia mente? "potrebbe rispondere: "Smettila di respirare! "Con quello che abbiamo spiegato a proposito del respiro corto, capiremo meglio la ragione più profonda di questo consiglio. Un'altra domanda ricorrente da parte dei praticanti era: "Come gestisco il mio dolore nella postura di meditazione? "A volte rispondeva: "Siediti! "Alcuni possono considerare questa risposta come crudele e irresponsabile, ma in realtà riflette una profonda saggezza: quando ci si siede con tutto il proprio peso, ci si rilassa, e così si comincia a rompere la tensione e il disagio. D'altra parte, se perseveriamo anche in mezzo a piccole sofferenze corporee, le endorfine vengono rilasciate. Hanno un potente effetto analgesico, che alla fine farà sparire il dolore in modo efficace.

 

- Capire che la non paura è alla base degli yama.

 

 La non paura è sia causa sia conseguenza delle cinque yamas, le cinque osservanze. Se uno si sente al sicuro, non avrà la tendenza ad attaccare gli altri e sarà quindi in ahimsa, non violenza, senza nemmeno doverci pensare. Se non si ha paura delle conseguenze del dire la verità, non si ha la tendenza a mentire e si pratica satya, la verità. Se uno è impavido di fronte alla solitudine emotiva e a un po' di frustrazione sessuale, pratica facilmente il brahmacharya, la disciplina sessuale. Se non si ha paura della mancanza, perché prendere ciò che non è dato, perché rubare? Quindi, torneremo naturalmente in possesso di quel gioiello che è asteya, il non furto. Infine, se non abbiamo paura della privazione, perché accumulare? Condurremo così facilmente all'aparigraha, al non-accumulo, al "non prendere tutto ciò che abbiamo intorno".

 

- Solitari e senza paura:

 

 La solitudine è un ottimo allenamento per non avere paura. Quando si è lontani dalle abitazioni umane, bisogna cavarsela molto di più da soli. Questa è la testimonianza di Tenzin Palmo, una donna inglese che ha trascorso undici anni e mezzo in una grotta dell'Himalaya (vedi il libro Tenzin Palmo. L’ insegnamento di una maestra del buddhismo tibetano, MC Editrice, 2016) Fa notare che uno dei grandi vantaggi di questa situazione è stato quello di sviluppare un forte senso di autonomia, cioè l'assenza di paura di essere soli. Quando ho chiesto al mio maestro Vijayânanda perché avesse trascorso otto anni in un eremo isolato in montagna, una delle sue risposte è stata spesso: "Per sviluppare la non paura". Ha elaborato questo punto spiegando che non si trattava semplicemente di coraggio di fronte ai pericoli esterni, di possibili aggressori che avrebbero potuto ucciderlo per prendere quel poco che aveva, come accade sull'Himalaya. Si trattava soprattutto di affrontare le sue paure interiori, come la paura di impazzire stando così a lungo da solo davanti a se stesso. Questa impavidità è stata mantenuta anche quando il corpo era indebolito dalla malattia.

     L'isolamento invece, la solitudine negativa, può derivare dalla paura degli altri. Ricordiamo il caso del monaco di Buddha che era caduto in un eccesso di zelo e non voleva vedere nessuno, nemmeno i fratelli della comunità. Pensarono che probabilmente stava esagerando e lo portarono dal maestro. Quest'ultimo gli spiegò che non aveva capito la vera solitudine, che non ha a che vedere con la paura degli altri. Si tratta piuttosto di tenere accuratamente a distanza da due “tipi di folle”, quella dei ricordi del passato e quella delle preoccupazioni per il futuro, cioè di trovare rifugio nel momento presente.

 

Per andare oltre, da Jacques Vigne, i libri:

L'urgenza di una meditazione laica. Per la cura di sé e degli altri

Meditazione, emozioni e corpo cosciente. Le pratiche meditative alla luce delle neuroscienze

Neurobiologia della meditazione e cura delle esperienze traumatiche

Tenzin Palmo Gli insegnamenti di una maestra del buddhismo tibetano

 

 

L'urgenza di una meditazione laica. Meditazione, emozioni e corpo cosciente  Neurobiologia della meditazione Tenzin Palmo

 

 

 
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