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Sette racconti di viaggio ed altrettanti itinerari in una delle regioni più suggestive e sacre del pianeta, con una guida d’eccezione come Jacques Vigne. Medico psichiatra, ricercatore, maestro di meditazione, per la prima volta, e per il pubblico italiano, raccoglie in un libro le sue esperienze di viaggiatore e di guida sui sentieri himalayani.

 

Una gioia di nonsense

Perché abbiamo bisogno del comico e dell’assurdo? Da dove viene l’interesse per una forma poetica così poco convenzionale come il nonsense? Andare oltre il pensiero razionale, accogliere il senso nudo dell’esistenza ha un effetto liberatorio, salvifico, persino gioioso.

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EUROBOND: perché sono l’unica soluzione praticabile PDF Print E-mail
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Written by MC Editrice   
Tuesday, 05 May 2020 17:03

EUROBOND: perché sono l’unica soluzione praticabile

Dati, numeri e problemi in gioco

di Marco Manunta*

 

La pandemia e le sue conseguenze economiche

L’impatto della pandemia sulle economie dei paesi colpiti, in pratica del mondo intero, sarà superiore a quello della crisi finanziaria del 2008.

Anche i paesi che fino al febbraio scorso vantavano indici economici positivi sono già in recessione: basti pensare agli Stati Uniti, la maggiore economia mondiale.

Nessun dubbio che il sostegno alle economie dovrà essere fornito dagli stati, ma i capitali da mettere in campo sono enormi.

Il problema comune è, dunque, il reperimento delle risorse necessarie per assicurare le prestazioni sanitarie, la produzione di beni e servizi e per contenere il disagio sociale e, in particolare, la disoccupazione causata dalla pandemia.

L’eccezionalità della situazione conduce unanimemente a ricorrere al finanziamento dell’economia in deficit.

Il “deficit”, ovviamente, non è un bancomat, ma solo un’indicazione di bilancio: significa spendere fondi di cui non si dispone. In sostanza, si tratta di ottenere capitali a credito.

Ogni stato può raccogliere le risorse necessarie emettendo titoli del debito pubblico: btp in Italia , “bund” in Germania e in Austria, “bonos” in Spagna e, in genere, “bond” nel linguaggio internazionale.

I capitali raccolti sul mercato devono essere retribuiti: ai sottoscrittori, chiunque essi siano, vanno riconosciuti e pagati periodicamente gli interessi al tasso promesso all’atto dell’emissione dei titoli.

Il tasso di interesse varia in ragione dell’affidabilità del debitore (lo stato emittente) ed è tanto maggiore quanto maggiore si prospetta il rischio di insolvenza.

Come è noto, nei paesi dell’Unione Europea i tassi di interesse vengono determinati dal famoso “spread”, cioè dal divario fra i tassi sui titoli decennali del paese più forte (la Germania) e quelli degli analoghi titoli di altri paesi; divario misurato in centesimi di punto percentuale (1% = 100 punti base).

Conosciamo giornalmente le oscillazioni dello spread: nel caso di rialzo l’Italia sarà tenuta a garantire tassi di interesse più elevati sui propri titoli e, quindi, oltre a restituire alla scadenza del decennio il capitale nominale portato dai Btp dovrà pagare alle singole scadenze annuali l’interesse promesso. Inutile dire che su cifre importanti anche solo lo 0,5% in più (pari a 50 punti base di spread) comporta un notevole aggravio di spesa per i conti pubblici nazionali.

Così, su 50 miliardi di euro, pari all’attuale (maggio 2020) importo che il governo si appresta a stanziare per una parte degli interventi a sostegno delle imprese, in caso di emissione di Btp il costo per interessi dello 0,5% ammonterebbe a 250 milioni all’anno. Alla scadenza decennale, quindi, il debito comporterebbe un maggior costo (sempre riferibile allo 0,5%) pari a 2,5 miliardi.

Dal momento che la pandemia ha messo in difficoltà tutto il mondo, in ambito europeo otto paesi, fra cui l’Italia, hanno chiesto l’emissione di titoli garantiti dall’UE nel suo complesso con il dichiarato intento, non solo di ridurre il costo degli interessi, ma anche di mettere al riparo i singoli stati nazionali da tensioni speculative della finanza internazionale.

La necessità e l’opportunità degli eurobond

L’UE non dispone di grandi risorse finanziarie: anche se l’economia complessiva dei paesi membri è la maggiore del mondo, il bilancio dell’Unione rappresenta non più dell’1,04% del reddito nazionale lordo della totalità dei paesi membri stessi.

In base agli articoli 311 e 312 TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea) il Consiglio Europeo (composto dai capi di stato e di governo), deliberando all'unanimità, può adottare decisioni che stabiliscono le disposizioni applicabili al sistema delle risorse proprie dell'UE e al quadro finanziario pluriennale. Per determinare il quadro finanziario pluriennale (nel quale rientrerebbe l’emissione di titoli comunitari), però, è necessaria anche l'approvazione del Parlamento, che delibera a maggioranza dei suoi membri.

Quanto alle due Istituzioni comunitarie chiamate a deliberare aiuti straordinari conseguenti alla pandemia è necessario ricordare che il 18 novembre 2019 il Parlamento e il Consiglio Europeo hanno approvato il bilancio 2020; bilancio che prevede un pacchetto di 168,7 miliardi di euro in stanziamenti d'impegno e 153,6 miliardi di euro in stanziamenti di pagamento.

Se si escludono gli importi relativi ai pagamenti (evidentemente relativi a impegni assunti in precedenza), il capitale complessivo di cui il Consiglio Europeo e il Parlamento possono disporre per stanziamenti vari si riduce a meno di 169 miliardi di euro per il 2020. Cifra esigua e che, oltretutto, ha già ricevuto una destinazione diversa. Essendo, comunque, questa la disponibilità di bilancio (limitata in pratica all’1% del PIL complessivo, come si è visto sopra) è evidente che per i costi e i danni della pandemia, oltre che per gli investimenti necessari alla ricostruzione e al salvataggio dell’economia dell’intera UE, le risorse dovranno essere reperite in altro modo.  

In un frangente tanto drammatico, un intervento importante a sostegno dei paesi membri comporterebbe il necessario ricorso al credito: tutti gli stati nazionali sono in difficoltà e certo sarebbe assurdo raccogliere capitali comunitari chiedendo una contribuzione straordinaria agli stessi paesi che necessitano di supporto.

L’idea degli eurobond appare, dunque, l’unica soluzione.

Infatti, come i singoli stati nazionali si procurano risorse finanziarie emettendo titoli del debito pubblico (come i Btp decennali in Italia), così l’UE dovrebbe e potrebbe emettere obbligazioni a termine garantite dal complesso dei 27 paesi membri o, quanto meno, dei 19 stati dell’eurozona.

Nel corso delle trattative l’Italia, tramite il proprio Presidente del Consiglio, ha sempre assicurato che si sarebbe fatta carico della quota di eurobond di cui fosse beneficiaria: cioè, ha dichiarato di assumersi l’onere di pagare gli interessi e di rimborsare alla scadenza il valore nominale degli eurobond ai risparmiatori/investitori che li avranno sottoscritti.

Qual’è, dunque, la differenza per ogni paese membro tra l’emissione di titoli di stato nazionali ed eurobond?

Tutto sta nel tasso di interesse da corrispondere agli investitori.

E’ evidente che paesi in maggiore difficoltà, come l’Italia, potrebbero ottenere capitali emettendo titoli propri a un tasso di interesse elevato, mentre con gli eurobond, che avrebbero la garanzia collettiva dell’Unione, il tasso potrebbe essere estremamente contenuto o addirittura nullo.

Inoltre, proprio per la garanzia fornita dall’UE nel suo complesso, i titoli comunitari sarebbero di facile collocamento sul mercato.

Nonostante le molte buone ragioni a sostegno dell’emissione di tali titoli, sono emerse opposizioni sia in sede europea, sia in sede nazionale (limitatamente all’Italia).

L’opposizione in ambito europeo

In Europa i principali paesi che si oppongono agli eurobond sono l’Olanda, la Germania, l’Austria e la Finlandia.

Molti ritengono che l’atteggiamento degli stati del nord si fondi sul rifiuto di farsi carico dei debiti di paesi già in precedente condizione di forte indebitamento, come l’Italia. Ma, come si è visto, l’Italia ha sempre dichiarato di impegnarsi singolarmente al rimborso dei titoli “utilizzati”.  

Come ha scritto Il Post del 9 aprile scorso la ragione dell’opposizione dei paesi del nord non è tanto il timore di dover condividere i debiti dei paesi del sud, quanto la preoccupazione di perdere l’enorme vantaggio che deriva loro dall’esistenza dello spread.

Infatti, gli stati considerati economicamente solidi e particolarmente affidabili come la Germania si finanziano emettendo titoli con tasso negativo (-0,3%); cioè, paradossalmente, pur essendo debitori nei confronti di chi sottoscrive i bund, percepiscono un compenso, che gli investitori sono disposti a pagare per conservare il capitale investito nei titoli in questione. Questo anche perché gli stessi investitori possono ottenere ampi margini di rendimento dai titoli di altri paesi, sulla carta “meno affidabili”, in forza del differenziale (spread) fra i bund e i btp italiani o i “bonos” spagnoli.

E’ evidente che l’emissione di titoli comuni garantiti dall’intera UE e, quindi, a tassi ridotti, ma pur sempre positivi, a parità di rischio, svierebbe gli investitori dalla sottoscrizione di titoli nazionali “forti” a tasso negativo. I paesi del nord perderebbero il privilegio, peraltro del tutto anomalo, di finanziarsi sul mercato a costo zero e, anzi, ricevendone addirittura un compenso.

I paesi oppositori hanno comunque buon gioco: la regola dell’unanimità del Consiglio Europeo in materia attribuisce valore decisivo (negativo) al voto contrario anche di un solo stato.

L’unanimità in sede europea per tutte le decisione più rilevanti muove dalla considerazione dell’UE non come effettiva “unione” di stati, ma come la somma di tanti stati nazionali, tutti gelosi della propria sovranità nazionale e arroccati nella difesa dei propri ambiti di competenza. Se, dunque, si intende effettivamente arrivare alla realizzazione di uno stato federale (come gli Stati Uniti) il modello frammentato attualmente esistente deve essere superato, con la progressiva cessione di quote di sovranità da parte dei singoli stati membri e con il conseguente superamento, in molti casi, della regola dell’unanimità, che spesso conduce alla paralisi dell’Unione in molti campi.

A parte questa considerazione di ordine generale, tornando all’opposizione agli eurobond ciò che maggiormente sorprende è l’atteggiamento rigoristico e inflessibilmente negativo tenuto dall’Olanda, che ha assunto la leadership degli stati membri contrari.

Si tratta di un paese che ha ben poco da insegnare in termini di rigore e di solidarietà: garantendo trattamenti societari e tributari di favore ha attirato ed attira le più importanti società multinazionali, che hanno trasferito o trasferiscono la loro sede nei Paesi Bassi. In questo modo l’Olanda, nota come “paradiso delle holding”, fruisce di una rendita di posizione (anche questa a costo zero) a detrimento di tutti gli altri stati membri in cui tali multinazionali operano. Così, basti pensare che l’ultima ad annunciare il trasferimento in Olanda è stata Mediaset, dopo che Fiat (Fca) ed Exor avevano già provveduto in senso analogo, per non parlare di Ikea, Google, Ebay, Uber, Unilever, solo per citare qualche esempio.[1]

L’opposizione interna

In ambito italiano ancor meno comprensibile è l’opposizione, non solo di partiti dell’opposizione, ma anche di gruppi della maggioranza.

La contrarietà all’utilizzo del MES (meccanismo europeo salva-stati) nei termini in cui tale meccanismo è attualmente regolato, sarebbe condivisibile per i pesanti condizionamenti che comporta (ristrutturazione del debito, pesanti tagli alle spese sanitarie e sociali, importanti privatizzazioni; il tutto sotto il controllo della cosiddetta “troika”). Ma l’adattamento del MES alle particolari circostanze, cioè, proprio con l’esclusione delle condizioni altrimenti applicabili, fa risultare puramente ideologico il rifiuto.

Anche se l’importo che verrebbe erogato all’Italia (in proporzione del PIL) sarebbe di “soli” 36 miliardi di euro, da destinare esclusivamente a spese per la sanità, non si vede perché l’Italia non dovrebbe giovarsi di un finanziamento vantaggioso e sostenere le stesse spese sanitarie (di cui c’è estrema e urgente necessità) ricorrendo all’emissione di Btp con tassi di interesse ben più elevati.

Ancora più stupefacente è il rifiuto, da parte di partiti dell’opposizione, degli eurobond (ammesso che questi venissero emessi dall’UE); rifiuto accompagnato dall’affermazione “patriottica” del “facciamo da soli”.

Anche qui non si capisce perché, a fronte di titoli comuni con tassi di interesse molto inferiori a quelli dei titoli di stato nazionali, l’Italia dovrebbe incrementare il proprio indebitamento emettendo propri btp a tassi nettamente svantaggiosi.

Peraltro, anche in questo caso i motivi dell’opposizione sono ampiamente diversi da quelli enunciati: l’obiettivo non sono i titoli del debito pubblico nazionale o europeo, ma la caduta dell’attuale governo: gli eurobond non sono altro che il pretesto occasionale della permanente campagna elettorale condotta nel nostro paese.

Ma le dichiarazioni politiche sull’argomento, tradotte anche in un voto contrario espresso in sede di Parlamento europeo, mette a rischio il paese: non solo l’Italia partecipa alle trattative con gli altri stati membri in una condizione indebolita proprio per la mancanza di unità al suo interno, ma rischia di finire in un’ennesima crisi di governo proprio in uno dei momenti più drammatici della sua storia.

 

Il debito italiano

Se è indubbio che l’eccezionalità della situazione impone un impegno finanziario straordinario e il ricorso all’indebitamento, diretto (mediante emissione di titoli di stato nazionali) o indiretto (mediante finanziamento di titoli comunitari ovvero di altro tipo di sovvenzione da parte dell’UE),, è altrettanto indubbio che il debito italiano, già il più elevato d’Europa, risulterà ulteriormente incrementato.

Con le misure messe in atto in questi giorni e con quelle preventivate per i prossimi mesi l’indebitamento supererà il 155% del PIL. Ma ciò che più di ogni considerazione sui numeri complessivi rende più facilmente percepibile la realtà in cui viviamo e vivremo è l’ammontare del debito che grava su ciascuno di noi: il debito pubblico in capo ad ogni italiano ammonterà a 43.000 euro, compresi i neonati.

Superata l’emergenza nessun governo potrà ignorare il problema del graduale rientro da un’esposizione debitoria tanto elevata.

Non si tratta, infatti, di rigore di bilancio fine a se stesso, ma del futuro dei nostri figli e nipoti: quali investimenti saranno possibili per l’istruzione, la ricerca, la previdenza e l’assistenza se non si inverte la tendenza all’incremento del deficit? Non si potrà ottenere la disponibilità di nuove risorse ricorrendo all’emissione di titoli di stato all’infinito, anche solo per pagare gli interessi sui titoli già emessi o da rinnovare.

Non si tratta solo di assumere politiche tributarie e di bilancio più oculate, ma anche di ricorrere a strumenti di finanziamento, come sopra abbiamo visto, che possono limitare i costi per interessi e contenere l’ulteriore indebitamento.

Evidentemente il problema non è solo dei politici, ma anzitutto nostro, di noi tutti cittadini.

 

*Magistrato in pensione, autore di ricerche e studi nell’ambito del diritto europeo.

Fra i libri pubblicati, vedi, fra l’altro quelli in tema di diritto all’acqua, editi da MC Editrice per la collana Hydor.

 

 

 

 

 
Le origini del civico acquedotto di Milano PDF Print E-mail
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Written by MC Editrice   
Thursday, 23 April 2020 20:46

Le origini del civico acquedotto di Milano

 

Marco Manunta, magistrato in pensione, autore di studi e pubblicazioni, in tema di beni comuni e diritto all’acqua, cita il lavoro di Gian Luca Lapini sulla storia dell’acquedotto di Milano per far comprendere l’importanza, o meglio, la necessità di una gestione pubblica dell’acqua, al riparo da meccanismi di profitto.

 

(….) Per esempio le epidemie di colera che scoppiarono a Londra nel 1849 e 1853-54, che causarono la morte di più di 20.000 persone.

Ancora tra il 1870 ed il 1890 scoppiarono in Europa oltre 600 epidemie più o meno gravi, il 70% delle quali causate dall'acqua. Si tenga anche presente che nel secolo XIX le prime fondamentali scoperte microbiologiche diedero una ragione oggettiva al noto principio che legava la salute pubblica alla purezza dell'acqua e allo smaltimento dei liquami fognari.

Può così sembrare strano che la costruzione del primo acquedotto pubblico di Milano sia avvenuta a partire dal 1888, piuttosto tardi cioè rispetto ad altre grandi città europee. Ciò trova qualche spiegazione nel fatto che, proprio per non essere stata costruita sulle rive di nessun grande fiume, Milano aveva sentito l'esigenza di far convergere verso di sé un'imponente rete di canali e navigli. Questi canali derivati da fiumi un tempo puliti, come l'Adda e il Ticino, costituivano una importante fonte di rifornimento d'acqua, sia per le industrie, sia per le operazioni domestiche a più intenso consumo come il lavaggio della biancheria. (….)

Per l'acqua potabile, ed in genere per gli usi domestici, il rifornimento avveniva tradizionalmente da una miriade di pozzi privati, che attingevano dalla ricca e facilmente accessibile falda freatica.

 

Si trattava in genere di pozzi scavati, con rivestimento in mattoni, profondi non più di 6-7 metri; molto rari erano i pozzi trivellati, che raggiungevano i 12-13 metri dando ovviamente acque migliori.

l'aumento degli abitanti (circa 321.000 al censimento del 1881), l'aumento delle esigenze igieniche. (….)

Così alla fine di questa lunga diatriba prevalsero le modeste, ma concrete e realistiche opinioni dell'Ufficio Tecnico Comunale, in particolare del giovane ingegnere Felice Poggi, che proponeva di attingere alla falda freatica, la tradizionale fonte usata da secoli dai milanesi, costruendo però pozzi profondi, in modo da avere garanzie di purezza e salubrità dell'acqua.

 

In effetti, durante la costruzione dei primi due pozzi sperimentali, intrapresa nella seconda metà del 1888 nella zona dell'Arena, si constatò che a profondità di 20-30 metri degli strati compatti di argilla proteggevano la falda dalle infiltrazioni superficiali, così che alla profondità raggiunta dallo scavo (il primo pozzo fu spinto fino a 145 metri, il secondo fino a 81m), l'acqua era ottima ed abbondante. In questi pozzi l’acqua risaliva per pressione naturale fino a 3-4 metri dal livello del suolo, ed era così possibile aspirarla facilmente con delle pompe sistemate qualche metro più in basso del livello stradale, ed azionate con cinghie.

All'inizio del 1889 fu di conseguenza decisa la costruzione del primo impianto di pompaggio, che fu denominato "Arena" ed entrò in servizio prima della fine dell'anno stesso

Esso era alimentato dai primi due pozzi sperimentali e da altri quattro scavati nel frattempo. Il macchinario consisteva in due motrici a vapore, alimentate da tre caldaie “tipo Cornovaglia”, che azionavano, mediante grandi cinghie, due pompe alternative della portata complessiva di 140 litri\secondo.

L'utilizzatore di quest'acqua fu il nuovo quartiere residenziale che stava sorgendo fra piazza Castello, foro Bonaparte e via Dante, mentre parte dell'acqua non ancora consumata andò a diluire le acque della rete fognaria dello stesso quartiere. Per regolarizzare la pressione di erogazione dell’acqua, furono costruiti due grandi serbatoi di accumulo in quota che furono “nascosti” all'interno dei torrioni del Castello Sforzesco

 

La rete dell’acqua potabile divenne una sorta di fiore all’occhiello fra le varie attività volte a migliorare le condizioni di vita dei cittadini, che la municipalità intraprese negli anni di fine secolo, in quanto a differenza di altri servizi tecnici a rete, quali, l’elettricità, il gas e successivamente il telefono, fu organizzata fin dall’inizio come impresa pubblica in virtù di un carattere di necessità che, sostenevano i suoi promotori, non poteva “convenientemente affidarsi a chi ne voglia fare motivo di lucro”.

 

Su questa linea sono i cittadini italiani che con i due referendum del 2011 hanno cancellato sia l’obbligo normativo di privatizzazione del servizio, sia il diritto del gestore al margine di utile del 7 per cento previsto per legge.

 

 

 

 
Il cambiamento climatico del ciclo dell’acqua PDF Print E-mail
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Written by MC Editrice   
Thursday, 23 April 2020 20:08

Il cambiamento climatico del ciclo dell’acqua

Di Giovanni Molina dottore agronomo, direttore di DINAMO (Distretto neorurale delle tre acque di Milano)

 

Un lavoro di studio effettuato dal Parco del Ticino e dall’Associazione di Irrigazione Est-Sesia ci porta a riflettere sui cambiamenti delle dinamiche del ciclo dell’acqua nel bacino idrico del Po, in particolare nella sua parte alta ovvero la pianura irrigua risicola nella porzione nord ovest del Bacino. Il lavoro è stato presentato nel corso del convegno svoltosi a Milano, a Palazzo Isimbardi il 20 febbraio scorso, dal titolo Agricoltura, collettività e clima.

 

La lettura della quantità di precipitazioni nell’arco dell’anno effettuata su diverse stazioni meteorologiche ci dimostra che il cambiamento climatico non ha diminuito la quantità d’acqua che cade dal cielo, ma ha cambiato le dinamiche temporali e distributive del fenomeno pioggia: piove in modo più intenso e per tempi più ristretti, quindi in modo più violento e, in parte con diversa distribuzione spaziale.

Il cambiamento climatico incide in modo evidente ed acclarato su un altro comparto del ciclo idrico: l’accumulo nelle calotte dei ghiacciai in particolare di quelli alpini che sono in costante riduzione. Ciò significa che l’acqua che “transita” per la pianura padana è sempre la stessa o addirittura è di più.

Perché allora la nostra percezione è quella di una situazione di mancanza d’acqua? Perché siamo così ben consapevoli e sensibili alla necessità del “risparmio idrico”?

L’estate 2019 è stata di insegnamento: la rete di distribuzione irrigua era al suo meglio ed addirittura oltre il regime ottimale di invaso, eppure molti agricoltori non riuscivano a bagnare i campi. Così, come nelle ultime dieci estati, nel mese di giugno, si è sollevato l’allarme siccità. In effetti molti agricoltori, in particolare i risicoltori che negli ultimi anni sono passati dalla semina in acqua a quella in asciutta, non riuscivano a bagnare i propri campi. Cosa è successo?

L’analisi effettuata dal team Parco-Est Sesia ha analizzato le dinamiche di falda, individuando una spiegazione nel cambiamento del periodo d’uso dell’acqua irrigua e nella conseguente variazione della “subsidenza di falda” (la profondità a cui si trova la falda acquifera tale da consentire la risalita capillare nel terreno e il conseguente minor impiego di risorse irrigue in superficie)

In sostanza alle dinamiche climatiche si sono aggiunte dinamiche agronomiche legate alla coltivazione del riso in asciutta e alla riduzione delle superfici foraggere a prato in pianura, ovvero ad una cospicua perdita di “ricarico delle falde” con conseguente aumento della subsidenza, cioè spostamento della falda a profondità maggiori che la rendono meno disponibile per lo strato fertile.

Come spesso avviene negli squilibri ecologici, il fenomeno ha innescato un circolo vizioso in cui l’innovazione tecnica ha fatto da acceleratore, incrementando inconsapevolmente il danno. La superficie coltivata a riso in asciutta è passata dal 25% della superficie risicola totale al 75% attuale. Apparentemente un vantaggio in quanto fonti autorevoli indicano che il consumo ad ettaro di acqua irrigua si riduce dai circa 14.000 mc/anno per una risaia sommersa, ai “soli” circa 10.000 mc/anno per una risaia in asciutta. Lo studio evidenzia che la cifra non è sempre vera e non è mai un vero risparmio idrico in termini di sistema. La risaia sommersa viene allagata a partire da inizio aprile, mentre la risaia asciutta da fine maggio-metà giugno. Il terreno ad aprile si trova normalmente umido per le precipitazioni primaverili e le temperature sono notevolmente più basse, quindi l’evaporazione in fase di allagamento è molto più contenuta. L’infiltrazione nel sottosuolo verso la falda è viceversa più lenta e lunga. In breve spostando di due mesi l’allagamento si perde più acqua in atmosfera e ne va meno in falda. Con l’estensione delle superfici in asciutta inoltre si verifica una maggiore necessità d’acqua in asciutta: perché la falda non ha visto contributi irrigui in primavera e perché le risaie asciutte non possono “bere” dalle risaie bagnate vicine, cosa che è avvenuta nel silenzio dell’ultimo quinquennio, finché le superfici in asciutta non hanno superato quelle in sommersione.

Nel mese di giugno inoltre si concentrano le richieste idriche di molte altre colture, in primo luogo il mais che ha sostituito i prati nei sistemi di foraggiamento degli ultimi 50 anni, causando anche un impoverimento della presenza di sostanza organica nello strato fertile (la sostanza organica contribuisce a rendere il terreno agrario maggiormente capace di trattenere l’acqua primaverile e rilasciarla nel periodo estivo).

In breve in nome di un risparmio idrico si è “persa” più acqua: in cielo con una più veloce evaporazione e, lasciandola correre più velocemente nel reticolo irriguo principale, verso il mare.

Non solo: la maggior evaporazione estiva, più rapida ed ascendente sembra non migliorare nemmeno la qualità delle precipitazioni che hanno modificato i loro ritmi passando dalle classiche piogge serali che bagnavano le nostre prealpi a partire da maggio a violenti temporali con trombe d’aria nei mesi estivi.

Se l’obiettivo di “risparmio” è valorizzare l’acqua il risultato è pessimo: l’acqua che non è entrata nella circolarità del sistema di falda e dei terreni agrari ha imparato solo a muoversi più velocemente ovvero a “scappare” in aria o in mare invece che “indugiare” nella spugna fertile da cui possiamo attingere. Questa “spugna” sostiene sia il ciclo agrario, sia il reticolo verde delle aree umide delocalizzate nella pianura con tutto il patrimonio di biodiversità e resilienza ambientale che da quest’acqua lenta trae beneficio.

 

 

Possiamo fermare l’acqua?

Ovviamente non è possibile “fermare” l’acqua, ma prendendo dalla saggezza contadina dobbiamo imparare che solo “l’acqua ferma l’acqua”. Questo lo sapeva anche Leonardo da Vinci che utilizzava questo concetto nelle sue “scale d’acqua”: sistemazioni idrauliche inventate per far defluire l’acqua lungo pendii evitandone l’erosione. Un esempio è la scala d’acqua della frazione Sforzesca a Vigevano. L’acqua è “fermata” creando un salto che confluisce in un bacino a conca: la forza dell’acqua in caduta libera dal salto è fermata dall’accogliente piscina in cui giunge e non c’è cemento armato capace di resistere all’erosione continua dell’acqua come è capace di fare l’acqua stessa.

Come possiamo quindi rallentare la discesa della preziosa acqua limpida che abbandona i nostri ghiacciai correndo verso il mare? La risposta la impariamo da Leonardo e dai contadini, così come i Monaci cistercensi impararono a applicare sistematicamente e a tramandare la sistemazione idraulica delle marcite che nel contado tardo medievale fu “inventata”, per gestire l’acqua che si impaludava intorno alle sorgive (Comincini, 2012). Se incentiviamo le pratiche agrarie che, da secoli, ricaricano la falda di superficie e lo strato fertile dei terreni di acqua creiamo una sorta di “piscina diffusa” che genera un rallentamento del deflusso idrico comandato dalla forza di gravità.

Il concetto è di fisica pura: a pari forza propulsiva la velocità è regolata dall’attrito.

Da qui nascono quattro proposte dell’Ente Parco da subito applicabili attraverso le politiche agrarie:

 

1.  tornare alla “risaia tradizionale”, abbandonando la “risaia asciutta”: questo consente di migliorare l’equilibrio tra acque superficiali e le acque sotterranee nel periodo primaverile, quando la richiesta di acqua irrigua per altre colture è minore e l’evapotraspirazione molto più bassa. Di conseguenza in estate la richiesta di acqua per il riso diminuirebbe, lasciando maggiore disponibilità  per i sistemi prativi e per i cereali estivi.

2.   tornare a far circolare l’acqua irrigua anche in inverno, attraverso: sommersione di risaie invernali, prati allagati, marcite, circolazione acqua nel reticolo aziendale. Questo favorisce l’equilibrio tra acqua superficiale e acqua di falda, portando la campagna coltivata ad una situazione di umidità dei suoli tale da poter avviare le semine primaverili in condizioni migliori e con minori sprechi idrici.

3.    fare scelte colturali alternative al mais, coltura che richiede tantissima acqua, ad esempio modificando il sistema di alimentazione del bestiame con l’introduzione di colture prative come prati ed erbai  o di foraggere che richiedono meno acqua in estate, come l’erba medica (soprattutto ove l’acqua irrigua deve essere sollevata o pompata con consumo energetico). Queste scelte aiutano a sostituire parte del mais coltivato per insilati, aumentando inoltre la copertura vegetazionale del suolo tutto l’anno, nonché permettendo di produrre in azienda gran parte della quota proteica per la razione zootecnica, così da ridurre la dipendenza da mangimi e soia (anche loro idrovori).

4.    valorizzare le pratiche per l’incremento della Sostanza Organica nei terreni: Coltivazione con tecniche di bassa lavorazione, concimazioni organiche (con reimpieghi aziendali da stabulazione su lettiera), permanenza delle colture di copertura invernali, reintroduzione delle colture da sovescio … ovvero tecniche innovative di agri-coltura ecologica

5.    aumentare la varietà del paesaggio rurale, attraverso misure di protezione della partitura poderale e del reticolo idrico fine, affiancate da incentivi per gli elementi vegetazionali e la biodiversità: quali siepi e aree umide.

 

Per concludere

-         Ci sono meccanismi per contrastare il cambiamento climatico con un miglior impiego dell’acqua in agricoltura;

-         Bisogna far capire alla UE la peculiarità unica del sistema irriguo padano;

-         E’ una buona direzione in cui di investire soldi pubblici;

-         E’ necessario coinvolgere gli imprenditori agricoli, le loro aggregazioni e i loro fornitori di servizi;

-         Si avvia un’azione corale.

 

 

 
Le origini del civico acquedotto di Milano PDF Print E-mail
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Written by MC Editrice   
Thursday, 23 April 2020 19:51

Le origini del civico acquedotto di Milano

 

Marco Manunta, magistrato in pensione, autore di studi e pubblicazioni, in tema di beni comuni e diritto all’acqua, cita il lavoro di Gian Luca Lapini sulla storia dell’acquedotto di Milano per far comprendere l’importanza, o meglio, la necessità di una gestione pubblica dell’acqua, al riparo da meccanismi di profitto.

 

 

(….) Per esempio le epidemie di colera che scoppiarono a Londra nel 1849 e 1853-54, che causarono la morte di più di 20.000 persone.

 

 

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